L’essere umano desidera insitamente la religione. Egli durante tutta la sua vita si dà costantemente da fare per realizzare la propria felicità, ricerca i mezzi piú efficaci a consentirgli di soddisfare i propri bisogni e raggiungere cosí i propri scopi; egli, senza dubbio, aspira a un mezzo invincibile e sempre efficace per realizzare i suoi desideri.
In natura non esiste alcuna causa il cui effetto sia perpetuo, invincibile e insoggiogabile. Da ciò si deduce che questa naturale tendenza dell’uomo a ricercare un invincibile mezzo per raggiungere la felicità e la reale pace interiore, è in realtà desiderio d’Islam, perché soltanto Dio l’Altissimo è invincibile, insoggiogabile nella sua volontà, immune da qualsiasi difetto e mancanza, e il solo metodo di vita avente una reale e totale relazione con Dio l’Altissimo è quello indicato dalla religione islamica.
È possibile quindi affermare che tale desiderio istintivo dell’uomo è una delle migliori prove in favore dei tre princípi della religione (l’Unicità di Dio, la Profezia e la Risurrezione), poiché la comprensione innata dell’uomo, necessaria conseguenza della sua particolare natura, non sbaglia mai. Cosí egli non confonde mai il concetto di amicizia con quello di inimicizia, come non confonde la sensazione di sete che prova dentro di sé, con quella che avrebbe nel caso in cui fosse dissetato.
È poi vero che talvolta l’uomo desidera cose che apparentemente non hanno nulla a che vedere con quanto abbiamo sinora detto; desidera ad esempio, avere, al pari di un uccello, ali e piume per volare, o addirittura essere, al pari di un astro, nell’alto dei cieli. Tuttavia nel fondo del cuore egli desidera seriamente una reale causa che lo conduca alla beatitudine, desidera raggiungere la pace assoluta, aspira a una vita realmente umana e finché vivrà, questo desiderio non si estinguerà mai.
Insomma, se nell’universo non fosse esistita una causa invincibile {Dio}, l’uomo, con l’essenza incontaminata che ha, non l’avrebbe pensata; se non fosse esistita una pace assoluta {propria della vita oltremondana}, se il metodo religioso {trasmessoci da Dio attraverso l’invio di profeti} non fosse stato vero, il loro desiderio non avrebbe mai trovato spazio nell’animo umano.
La piú sicura e affidabile (dal punto di vista religioso) fonte con cui è possibile effettuare una sommaria ricerca riguardo alla comparsa delle religioni è il generoso Corano. Esso è infatti immune da ogni sorta di errore, esente da ogni tipo di faziosità.
Il glorioso Corano descrive in forma sintetica le origini della religione affermando che la religione di Dio, che non è altro che la religione islamica1, accompagna l’uomo fin dal primo giorno della sua comparsa.
L’attuale generazione umana, come afferma espressamente il Corano, deriva da un’unica coppia formata da un uomo, chiamato dal Corano Àdam {Adamo}, e da una donna, chiamata da questo sacro libro Hawwà {Eva}. Adamo era profeta di Dio e come tale riceveva la rivelazione divina. La sua religione era assai semplice; essa comprendeva alcuni comandamenti generali come il dovere di ricordare Dio, di fare del bene al prossimo (in modo particolare ai genitori), di preservarsi dalla corruzione, di non uccidere i propri simili e di non commettere atti turpi.
Dopo la morte di Adamo e della sua sposa, i loro figli condussero un’esistenza assolutamente tranquilla, senza contrasti. Man mano che la popolazione umana aumentava di numero, veniva a crearsi la prima forma di vita collettiva; fu a questo punto che l’uomo inizio a imparare a organizzare la propria vita e fece il primo passo verso la civiltà.
Aumentando ulteriormente la popolazione, questo gruppo primitivo si divise dando luogo alle prime tribú della storia umana. In ognuna di esse v’erano delle eminenti persone, rispettate e onorate dai membri della tribú alla quale appartenevano. Tali personalità erano cosí riverite e venerate, che dopo la loro morte i membri del clan costruivano i loro monumenti e ne facevano oggetto di lode ed encomio. Fu cosí che l’idolatria iniziò a diffondersi tra la gente. Ciò è confermato sia dalle tradizioni degli Imam che dalla storia dell’idolatria.
Gradualmente per effetto dei soprusi fatti dai potenti ai danni dei deboli comparvero i primi contrasti tra la gente che, aggravati di contrasti casuali, sfociarono in veri e propri conflitti. L’insorgere di tali contrasti, di tali conflitti, che deviarono l’uomo dal sentiero della beatitudine e lo trascinarono verso la rovina, verso la malasorte, fu la causa per la quale Dio, il Benevolo, inviò i Profeti e assieme a loro i Libri Ispirati, risolutori dei contrasti degli uomini. A tal proposito, Dio l’Altissimo, nel Corano, dice:
“La gente {inizialmente} formava un’unica comunità; {in seguito ai contrasti insorti tra gli individui di tale comunità} Dio inviò i Profeti affinché rendessero lieta novella {ai probi} e ammonissero {gli empi}, e con essi inviò il Libro affinché giudicasse di ciò in cui discordavano...”(Santo Corano, 2:213)
La sacra religione islamica è, in ordine cronologico, l’ultima religione celeste e, per questo motivo, la piú completa. L’avvento di questa religione abolí le precedenti; è infatti logico che quando esiste il completo non v’è piú bisogno dell’incompleto.
L’Islam è stato inviato all’umanità mediante il venerato profeta Muhammad (S) figlio di Abdillàh (S)2. Questa porta della salvezza e della beatitudine fu aperta agli uomini nel momento in cui, superate le ere dell’immaturità e dell’ignoranza, essi divennero atti a raggiungere la perfezione umana e a ricevere e mettere in pratica i sublimi insegnamenti divini.
L’Islam ha perciò portato all’uomo verità e conoscenze adeguate alla comprensione dell’individuo realista, gli ha donato virtú che lo distinguono dalle restanti creature e precetti in grado di organizzare la sua vita individuale e sociale.
Da questo punto di vista, l’Islam costituisce una serie di princípi e di norme {di validità universale e perpetua} di carattere morale e pratico, la cui messa in pratica garantisce la beatitudine dell’uomo in questo mondo e nell’Aldilà.
Le norme della religione islamica sono tali che ogni singolo individuo appartenente alla grande famiglia umana e ogni società umana che le metta in pratica potrà raggiungere le migliori condizioni di vita e la piú elevata forma di perfezione. La religione islamica dona ugualmente i suoi proficui effetti a ogni individuo, a ogni società: qualsiasi individuo, grande o piccolo, sapiente o ignorante, uomo o donna, bianco o nero, orientale od occidentale che sia, senza alcuna differenza, può giovarsi dei vantaggi offerti da questa pura religione e soddisfare nel migliore e piú completo dei modi le sue esigenze. Infatti, l’Islam fonda infatti i suoi princípi e i suoi precetti sulla natura insita delle cose ed è perciò in grado di considerare le necessità dell’essere umano e indicare i mezzi in grado di soddisfarle.
In effetti, la natura insita dell’uomo è, in ogni individuo, in ogni razza e in ogni era, la stessa: piccoli o grandi, uomini o donne, sapienti o ignoranti, bianchi o neri che siano, sono in ogni caso membri di questa grande famiglia e hanno perciò stessa natura primordiale e gli stessi bisogni. Lo stesso dicasi per le generazioni future che appartenendo anch’esse alla grande famiglia umana avranno le stesse esigenze di quelle passate.
Ripetiamo quindi che l’universale ed eterna religione islamica, è in grado soddisfare tutte le reali e naturali esigenze dell’uomo. È questo il motivo per cui Dio l’Altissimo la chiama “Religione Naturale”, invitando gli uomini a mantenere viva la propria natura umana, ed è questo suo carattere naturale che ha portato gli eminenti sapienti islamici ad affermare che essa è semplice da osservare e non è severa con l’uomo.
Abbiamo in precedenza spiegato come la religione sia superiore agli altri metodi di organizzazione e guida della società. Abbiamo poi accennato all’eccellenza dell’Islam sulle altre religioni. In base a tali conclusioni siamo poi riusciti a comprendere che i vantaggi che offre l’Islam alla società umana sono notevolmente maggiori di quelli offerti da qualsiasi altra religione o metodologia sociale. Questa realtà diviene ancora piú chiara quando si confronti l’Islam con le altre religioni e con i diversi metodi sociali.
La dottrina islamica non è come l’attuale dottrina cristiana che considera solo la felicità ultraterrena della gente, trascurando quella terrena. Essa non è nemmeno come l’attuale religione giudaica, che si preoccupa solo di istruire e educare un’unica nazione, e neppure come gli insegnamenti zoroastrici {e di talune altre sette e religioni}, limitati a pochi argomenti di carattere etico e liturgico.
L’Islam prende infatti in considerazione l’istruzione, l’educazione, la felicità terrena e la beatitudine ultraterrena di tutti gli uomini, in tutti i luoghi e in tutte le ere, fino al Giorno del Giudizio.
Solo in questo modo è possibile correggere le società e condurre l’uomo verso la beatitudine di questo mondo e dell’Aldilà; infatti, correggere una sola società o un’unica nazione, con i rapporti internazionali che si fanno di giorno in giorno sempre piú vicini e intensi, è un lavoro inutile ed è come voler depurare una goccia d’acqua in un fiume inquinato. Inoltre limitarsi a riformare una sola società, trascurando le altre, è un comportamento che contraddice lo spirito di riformismo.
Negli insegnamenti islamici sono state considerate tutte le idee che è possibile che vengano in mente all’uomo a proposito della creazione del mondo e dell’essere umano, tutti i vizi e le virtú che è possibile che vengano ad annidarsi nell’animo umano, tutte le azioni, le attività eseguibili da un essere umano nell’ambiente in cui vive.
Dio ha eletto quei princípi aventi carattere realistico {a capo dei quali v’è l’Unicità di Dio l’Altissimo} e li ha costituiti fondamento e origine della religione islamica. Per quanto concerne poi l’etica, l’Islam elegge ogni qualità che, nella realtà e presso la retta ragione, è buona, è virtú. Sulla base dell’etica, l’Islam dispone poi una serie di norme pratiche nelle quali sono stati considerati tutti i particolari, i dettagli della vita dell’uomo e, di conseguenza, determinati i doveri individuali e sociali d’ogni individuo, sia egli nero o bianco, cittadino o contadino, uomo o donna, piccolo o grande, servo o padrone, comandante o comandato, abbiente o povero.
Dice Dio l’Altissimo: “Una buona parola {una vera e giusta fede} è simile a un buon albero, la cui radice è salda e la cui fronda si eleva alta in cielo”(Santo Corano, 14:24)
Chiunque esamini attentamente i principi, l’etica e le norme della religione islamica, scoprirà un oceano sconfinato e straordinariamente armonico di sapienza e di spiritualità {che perfino la mente perspicace è incapace di comprenderne i limiti, di raggiungerne gli abissi} con l’ausilio del quale l’uomo può avvicinarsi a Dio, adorarlo e formarsi spiritualmente.
È questo straordinario insieme di princípi e di precetti che il Dio, l’Unico, ha rivelato al Suo prediletto profeta Muhammad (S).
Esaminando attentamente le metodologie delle società progredite del mondo, comprendiamo bene che se da un lato esse hanno dato luogo al loro straordinario progresso scientifico e industriale, hanno permesso loro di raggiungere la luna, Marte e di creare sconcertanti organismi statali, dall’altro però hanno mandato in rovina l’umanità, hanno provocato in meno di un quarto di secolo, ben due guerre mondiali {nelle quali sono morte milioni di persone innocenti} e ora stanno spingendo l’umanità verso una terza guerra mondiale, che se scoppiasse provocherebbe l’annientamento dell’umanità.
Con questi metodi, fin dal primo giorno della loro comparsa, in nome dell’umanitarismo e col falso proposito di voler liberare i popoli oppressi, il continente europeo è riuscito a schiavizzare completamente i popoli dei quattro continenti e pochi individui sono riusciti a diventare, sotto tutti gli aspetti, assoluti padroni di centinaia di milioni di persone innocenti.
Non si può certo negare il fatto che le nazioni progredite fruiscano dei beni e dei piaceri materiali e che siano riuscite a realizzare molte delle aspirazioni umane {come la giustizia sociale e i progressi in campo culturale, industriale e artigianale}, però, considerando il rovescio della medaglia, vediamo che sono afflitte da innumerevoli disgrazie e sventure, le piú importanti delle quali sono i conflitti internazionali e gli stermini che continuano ogni giorno ad aggravare i problemi del mondo.
È evidente che tutti questi frutti, talvolta amari, tal altra dolci, sono il prodotto dell’albero della civilizzazione e il diretto risultato del metodo di vita di queste nazioni, di queste società, apparentemente impegnate sulla via del progresso.
Per ciò che riguarda i frutti dolci, i quali hanno portato la felicità nella società umana e dai quali l’uomo ha tratto vantaggio, essi non sono stati originati solo dalla mera applicazione della legge, ma anche da una serie di virtú {quali la sincerità, l’onestà, la coscienza del dovere, la benevolenza e l’abnegazione} possedute dagli individui appartenenti a tali nazioni. La legge infatti esiste anche nelle nazioni arretrate dell’Asia e dell’Africa, eppure vediamo il loro sottosviluppo e la loro infelicità in continua crescita.
Per quanto riguarda invece i frutti amari di quest’albero, i quali hanno reso difficile la vita all’uomo, hanno provocato sventura e malasorte e stanno ora trascinando le stesse nazioni per cosí dire “progredite” al pari delle altre, verso la rovina, derivano da una serie di vizi quali la cupidigia, l’iniquità, la crudeltà, la superbia e la pervicacia.
Esaminando attentamente i precetti della sacra religione islamica, ci accorgiamo che essa ha ordinato all’uomo di acquisire le virtú e ha proscritto i vizi poc’anzi richiamati. In linea generale, l’Islam invita l’uomo ad assumere un comportamento giusto, corretto, nel quale vi sia il bene e l’interesse dell’umanità, mettendolo in guardia contro ogni azione ingiusta, scorretta, che turba la pace, la quiete degli uomini {benché assicuri il bene e l’interesse di una particolare nazione}.
Da quanto precede possiamo concludere che:
il metodo dell’Islam offre vantaggi maggiori di quelli offerti da qualsiasi altro metodo sociale: “Questa è la religione retta e salda, ma la maggior parte degli uomini non sanno” (Santo Corano, 30:30);
gli aspetti positivi riscontrabili nella contemporanea civiltà occidentale, sono tutti, indistintamente, doni della pura religione islamica, dei quali hanno usufruito i popoli occidentali. Infatti, diversi secoli prima del sorgere della civiltà occidentale, l’Islam esortava la gente verso quegli stessi precetti morali la cui osservanza ha permesso agli occidentali di superare i Musulmani. A tal proposito, il Principe dei Credenti, Alí (as)3, dal letto di morte, disse alla gente: “Non sia che vi comportiate in modo tale da essere superati dagli altri nell’osservanza del Corano”.
Secondo i precetti dell’Islam, il principale obiettivo deve essere la moralità e su di essa si debbono fondare le leggi. È infatti il trascurare la moralità, il disporre le leggi al solo scopo di raggiungere determinati interessi materiali che spinge gradualmente l’umanità verso il materialismo, priva gli uomini della spiritualità {unica cosa che distingue l’uomo dall’animale}, sostituendola con l’indole feroce del lupo e della pantera e con gli istinti propri alla vacca e alla pecora. A tal proposito, il sommo Profeta (S) disse: “Il mio principale obiettivo è l’educazione morale degli uomini”.
“In verità la religione, presso Dio, è l’Islam” (Santo Corano, 3: 19).
L’uomo tende, in modo innato, a ricercare la causa della comparsa di ogni fenomeno e nega categoricamente la possibilità che i fenomeni vengano a esistere da sé, senza l’intervento di alcuna causa.
Cosí un autista la cui vettura si arresti improvvisamente scenderà dall’auto per controllare la parte che sospetta essersi guastata e scoprire cosí la causa dell’arresto; non riterrà invece che l’auto si sia arrestata senza un preciso motivo. Quando poi vorrà farla ripartire prenderà gli strumenti appositamente disposti in essa e si metterà a lavoro per ripararla, senza restare passivo in attesa di una partenza casuale.
Quando l’uomo ha fame pensa a procurarsi del cibo, quando ha sete va alla ricerca dell’acqua e quando sente freddo cerca di procurarsi un abito pesante o una stufa. Anche in tali casi, mai resterà passivo affidandosi al caso e attendendo che le cose si risolvano da sé.
Colui che desidera costruire un edificio naturalmente si sforzerà di procurare i materiali da costruzione necessari e un sufficiente numero di operai e muratori. Non spererà invece che il suo desiderio si realizzi da sé, in modo del tutto casuale.
Da quando l’uomo esiste sulla terra, vede intorno a sé montagne, foreste e immensi mari. Egli ha sempre visto il sole, la luna e le stelle in ordinato e perpetuo movimento. Gli scienziati, con il loro instancabile lavoro di ricerca scientifica, hanno sempre indagato sulle cause della comparsa di questi stupefacenti esseri e nessuno di loro ha mai affermato che siccome l’uomo da quando ha messo piede sulla terra ha visto questi esseri nello stesso stato in cui ancor oggi si trovano, allora essi sono venuti a esistere da sé, senza l’intervento di alcuna causa.
Quest’innata disposizione a ricercare le cause, le ragioni, spinge l’uomo a indagare riguardo alla comparsa del creato e del suo stupefacente ordine e a chiedersi se quest’immenso universo (le cui componenti sono in relazione tra di loro e che, in realtà, formano un unico grande fenomeno) sia venuto a esistere da sé, senza l’intervento di alcuna causa, oppure tragga origine da un fattore esterno.
A proposito poi dello strabiliante ordine del creato, egli è spinto da questo innato istinto di ricerca a chiedersi se tale ordine (che guida ogni cosa verso il proprio specifico obiettivo ed è presente in tutto l’universo secondo costanti e assolute leggi) sia retto da un essere dotato di potere e sapere infiniti, oppure sia venuto ad esistere in modo casuale.
Quando l’uomo segue il proprio istinto di realismo, trova in ogni angolo dell’universo numerose prove dell’esistenza del Creatore, del Sostentatore dell’Universo. Egli infatti, con tale innato istinto, comprende che ognuna delle creature che godono del beneficio dell’esistenza, che nel loro essere, volenti o nolenti, percorrono un ben determinato sentiero e dopo un po’ lasciano il proprio posto ad altre creature, non sono venute a esistere da sé; il preciso itinerario che percorrono durante la propria esistenza non è stabilito da loro stesse.
Esse, insomma, non hanno il minimo ruolo nella propria creazione e nell’assetto dell’itinerario della propria esistenza. Ad esempio, non è stato l’essere umano a scegliere d’essere uomo o d’avere le caratteristiche proprie dell’essere umano.
Parimenti, l’istinto poc’anzi citato, non accetterà mai l’ipotesi che tutti gli esseri che circondano l’uomo siano venuti ad esistere da sé, in modo del tutto casuale e mai approverà che l’ordine che li governa sia privo di qualsiasi fondamento, sia frutto del caso. Vediamo infatti che la coscienza umana nega tale casualità persino nel caso di pochi mattoni disposti ordinatamente l’uno sull’altro.
Ecco perché un’innata voce annuncia dal profondo dell’animo che l’universo è sicuramente dotato di una causa che lo ha creato e che provvede a mantenerlo. Tale causa, tale essere infinito, tale fonte di sapere e potere illimitati, è Dio, creatore di tutto ciò che esiste:
“Dio è Colui che ha donato a ogni cosa la sua particolare creazione e poi l’ha guidata sul sentiero della vita e della permanenza”(Santo Corano, 20:50)
Attualmente, la maggioranza degli uomini è credente, è convinta del fatto che esiste una divinità che ha creato l’universo e adora tale divinità.
In base a quanto afferma la storia, anche gli uomini del passato erano per la maggior parte credenti. Benché tra le diverse comunità religiose vi fossero divergenze di vedute e nonostante che ogni popolo descrivesse l’origine della creazione in modo diverso dall’altro, tutti però erano d’accordo sulla fondamentale questione dell’esistenza del Creatore.
Oltre all’Islam, anche le altre religioni (quali Cristianesimo, Giudaismo, Zoroastrismo e Buddismo) ammettono che l’universo ha un creatore. Coloro che negano invece l’esistenza del Creatore non hanno e mai troveranno una prova che dimostri la Sua inesistenza. Essi in realtà dicono: “Non abbiamo alcuna prova che dimostri l’esistenza del Creatore”, ma non possono dire: “Abbiamo una prova che dimostra la Sua inesistenza”. L’ateo dice: “Non so”, non dice: “Non esiste”. In altre parole egli è in grado di dubitare, ma non di negare.
Al riguardo Dio l’Altissimo, nel Corano, dice:
“E {i miscredenti} dissero: ‘Essa {cioè l’esistenza umana} si circoscrive alla nostra vita terrena. Alcuni muoiono, altri nascono e non ci fa perire se non il {trascorrere del} tempo’. Essi però non possiedono alcuna cognizione a riguardo e non fanno che congetturare” (Santo Corano,45:24)
Persino nelle piú antiche tracce lasciate dagli uomini primitivi si riscontrano indizi che confermano l’esistenza della religione e che indicano la loro credenza circa l’esistenza di un mondo soprannaturale.
Anche nei nuovi continenti (come l’America e l’Australia), nelle remote isole del continente antico (nelle regioni cioè scoperte in questi ultimi secoli) la popolazione indigena credeva in Dio. Benché non sia stato rinvenuto alcun documento storico che dimostri che tali popolazioni abbiano avuto relazioni con il mondo antico essi, con qualche divergenza di prospettiva, erano in grado di dimostrare l’esistenza di un creatore per l’universo.
Riflettendo sul fatto che la convinzione dell’esistenza di Dio è sempre esistita tra gli uomini, si comprende chiaramente che essa è innata, l’uomo cioè comprende insitamente che l’universo possiede un creatore.
Il generoso Corano fa riferimento a quest’innata caratteristica umana dicendo:
“Se tu chiederai loro {a coloro cioè che adorano altri al posto di Dio} chi li ha creati, essi diranno sicuramente: ‘Dio’ (Santo Corano,43:87)
Se tu chiederai loro, chi ha creato i cieli e la terra, essi diranno sicuramente: ‘Dio’” (Santo Corano,31:25)
Se l’uomo riesce a trovare la giusta risposta agli interrogativi (che si pone a causa del suo innato istinto di ricerca della verità) inerenti all’esistenza di un creatore per l’universo e per il suo strabiliante ordine, se riesce a dimostrare l’esistenza dell’imperitura causa dell’esistenza dell’universo e del suo stupefacente ordine, ha in realtà collegato ogni cosa all’invincibile volontà (basata su un infinito potere e un illimitato sapere) di tale causa.
In conseguenza di ciò, una sorta di conforto, di speranza invade l’intero suo essere; di fronte alle difficoltà della vita, ai problemi che non riesce in alcun modo a risolvere non cade mai in istato d’assoluta disperazione, poiché sa che ogni causa (per quanto potente sia) è dominata da Dio l’Altissimo e che ogni cosa soggiace alla Sua volontà.
Colui che è dotato di tale consapevolezza non si sottomette mai in modo assoluto a nulla all’infuori di Dio; quando la sorte gli sorride, non diventa superbo, non dimentica la sua reale condizione né quella del mondo. Egli sa infatti che le cause esteriori {con le quali ha ogni giorno a che fare} non sono indipendenti, bensí procedono secondo gli ordini che ricevono da parte del Signore Eccelso. Un tale individuo comprende che non deve prostrarsi se non dinanzi a Dio l’Altissimo e non deve sottomettersi in modo incondizionato se non ai Suoi ordini.
Al contrario, chi non riesce a raggiungere una tale consapevolezza non potrà mai avere la serenità, il realismo, l’elevato temperamento e l’innato coraggio di chi invece è riuscito a raggiungerla.
È proprio questa inconsapevolezza che di giorno in giorno fa aumentare, nelle nazioni in cui predomina la tendenza ad apprezzare e ricercare solo i beni e i piaceri materiali, il numero dei suicidi. Coloro infatti che non considerano che le cause e i mezzi materiali, alla minima difficoltà disperano di riacquistare la propria felicità e {in molti casi} pongono fine alla propria vita.
Di contro, coloro che sono pervenuti a una prospettiva divina del mondo, anche quando si trovano in punto di morte, non si fanno prendere dalla disperazione e trovano conforto e fiducia in Dio l’Onnipotente, l’Onnisciente.
Il nobile Imam Husain(as), nelle ultime ore della sua vita, nelle quali veniva colpito da ogni lato dalle spade nemiche, diceva: “La sola cosa che mi rende facile {da sopportare} questa spiacevole disgrazia, è vedere che Dio osserva costantemente le mie azioni”.
Il nobile Corano, a tal proposito, dice:
“Coloro che considerano Dio come il loro creatore, ammettono la Sua divinità e poi si attengono a ciò, non saranno mai presi da timore e da tristezza” (Santo Corano,46:13)
In un altro versetto leggiamo poi:
“{...essi sono} coloro che hanno creduto e i cui cuori si placano al ricordo di Dio. Badate! I cuori si placano soltanto col ricordo di Dio” (Santo Corano,13:28)
Il lattante che afferra il seno materno e lo succhia per nutrirsi è veramente alla ricerca del latte. Quando un bambino raccoglie un oggetto e tenta di mangiarlo è soprattutto alla ricerca di qualcosa di commestibile e nel momento in cui si accorge di aver sbagliato getta via l’oggetto raccolto.
In generale, quando l’uomo insegue uno scopo, desidera raggiungere esattamente ciò che si è prefissato e ogni volta che si accorge di aver sbagliato si rammarica per il suo insuccesso, per gli inutili sforzi che ha compiuto. L’uomo insomma tenta costantemente di evitare di cadere in errore, si applica con tutte le sue forze affinché tutto ciò che fa sia corretto.
Tutto ciò ci fa comprendere che l’essere umano è innatamente realista. Egli, volente o nolente, è sempre alla ricerca della realtà, segue sempre il vero. Se poi a volte capita che qualcuno dimostra caparbietà, si rifiuta di accettare una data verità, è per il fatto che è caduto in errore, non è riuscito ancora a discernere il vero dal falso. A volte, invece, la ragione di questo rifiuto risiede nel fatto che l’uomo per effetto della propria sensualità, incorre in una specie di “malattia psichica” che gli rende amaro il dolce gusto della verità. Allora, pur riconoscendo le verità, pur ammettendo che è necessario aderirvi si rifiuta di sottomettersi ad esse.
Ad esempio, molto spesso succede che l’assuefazione a sostanze dannose (quali il tabacco, gli alcolici e gli stupefacenti) spinge l’uomo a calpestare il suo istinto di rigetto di ciò che è dannoso, di fuga da ciò che è pericoloso, e a compiere atti che sa che sono a suo danno.
Il generoso Corano invita insistentemente l’uomo a essere realista, a seguire il vero, gli chiede di mantenere vivo il proprio istinto di realismo e di aderimento alla verità:
“Oltre la verità non v’è che il traviamento” (Santo Corano,10:32)
In un altro versetto leggiamo:
“Invero gli uomini sono in {continua} perdita, eccetto coloro che credono, operano il bene e si raccomandano reciprocamente {di aderire al} la verità e la pazienza” (Santo Corano,103:2-3)
È chiaro che Dio fa tutte queste raccomandazioni per salvare l’uomo dalla rovina. In effetti, quando l’uomo non si sforza di aderire alla verità e di mantenere vivo il suo istinto di realismo, quando non s’interessa piú della propria reale beatitudine, cade nella corruzione, diviene vittima di futili pensieri e assurde superstizioni. È allora che si discosta dalla propria natura e cade, in uno stato di totale ignoranza e traviamento, sotto il dominio dei sensi, divenendo cosí simile a un quadrupede.
Dio l’Altissimo a tal proposito dice:
“Cosa ne pensi di coloro che adorano le proprie passioni? Pensi forse di essere in grado di correggerli, di educarli? Credi forse che la maggior parte di essi sia in grado di sentire o di comprendere? No, essi sono simili ai quadrupedi, e ancor piú sviati” (Santo Corano, 25:43-44)
Naturalmente, quando riaffiora l’innata attitudine realista dell’uomo, le verità gli si palesano una dopo l’altra ed egli accoglie ogni nuova realtà con entusiasmo, avanzando quotidianamente sul sentiero della beatitudine.
A proposito dell’esistenza del Creatore, il Corano afferma:
“È forse possibile dubitare intorno all’esistenza di Dio, creatore dei cieli e della terra?” (Santo Corano, 14:10)
Ci proponiamo ora di spiegare la precisa argomentazione contenuta in questo nobile versetto.
Di giorno tutto è visibile: le persone, le case, il deserto, le montagne, le foreste, i mari. Quando invece l’oscurità della notte pervade lo spazio, tutte queste chiare e manifeste cose, spariscono avvolte dalle tenebre. È in quel momento che comprendiamo che quella luce non era un attributo ingenito di quegli oggetti, ma che proveniva dal sole (dotato di luce propria) che le illuminava. Se infatti la luce fosse stata un loro ingenito attributo mai l’avrebbero persa.
L’uomo e gli altri animali percepiscono le cose per mezzo dei loro sensi (vista, udito, ecc. ecc.) e si muovono grazie alle membra e agli organi del loro corpo. Dopo un certo periodo però perdono le loro facoltà percettive e motorie divenendo inerti: è allora che si dice che muoiono. Se ne deduce che la percezione e il movimento constatati in questi esseri animati non provengono esclusivamente dal loro corpo ma riguardano anche il loro spirito. Con la dipartita di quest’ultimo tali esseri perdono infatti la propria vita, la propria attività. Ad esempio, se la vista e l’udito fossero esclusivamente dovute all’occhio e all’orecchio, fino a quando questi due organi esistono è necessario che anche la vista e l’udito permangano, mentre cosí non è.
Le stesse considerazioni valgono per l’universo di cui facciamo parte e sulla cui esistenza non possiamo assolutamente dubitare: se la sua esistenza derivasse da sé stesso, mai la perderebbe. Al contrario constatiamo che i suoi elementi perdono uno dopo l’altro la propria esistenza, sono soggetti a incessante trasformazione e perdono continuamente una forma per assumerne un’altra.
Bisogna quindi decisamente affermare che l’esistenza di tutti gli esseri trae origine da un altro essere, il quale non appena interrompe il proprio rapporto esistenziale con un essere, questo sprofonda negli abissi del nulla, si annienta.
Colui il cui infinito essere è la causa dell’intero universo e che mantiene tutti gli esseri che compongono il creato, si chiama Dio. Egli è un essere al quale non è possibile attribuire nulla che denoti mancanza e difetto, altrimenti, al pari degli altri esseri, non sarebbe totalmente autosufficiente e la sua esistenza non sarebbe totalmente indipendente.
Se l’uomo getta uno sguardo privo di pregiudizi sul creato, constaterà ovunque i segni e le prove della pura esistenza del Creatore e sentirà ogni cosa testimoniargli la sussistenza di tale realtà.
In effetti, tutto ciò che l’uomo è in grado di osservare in questo sterminato universo o appartiene alla categoria degli esseri creati da Dio, o a quella delle proprietà che Egli ha posto in essi, oppure è una manifestazione di quell’ordine che per divino decreto governa ogni cosa.
L’uomo stesso, con l’intera sua esistenza, testimonia l’esistenza del Creatore; egli infatti non si è autocreato, le proprietà che manifesta non dipendono dalla sua scelta, l’ordine dal quale è governato sin dal primo istante della sua nascita non è frutto dei propri provvedimenti. Come può quindi supporre che questo strabiliante sistema sia frutto del caso? Come può attribuire la propria esistenza e l’ordine che la governa all’ambiente nel quale è nato? Non è infatti vero che l’esistenza di tale ambiente e l’ordine dal quale è governato non derivano da questo stesso ambiente e non sono nemmeno frutto del caso?
L’uomo non può negare tali verità ed è per questo che non ha altra alternativa che accettare l’esistenza di una suprema causa che ha dato origine a ogni cosa e ha fondato l’infallibile ordine cosmico. Con un minimo di attenzione si renderà conto che è il Creatore che dona l’esistenza a ogni essere e secondo un particolare ordine lo fa permanere guidandolo verso la propria particolare perfezione.
Ora, nell’istante in cui l’uomo diviene consapevole del fatto che gli esseri sono tutti in relazione tra di loro e tutti insieme formano un unico straordinario sistema governato da un unico perfetto ordine, non può non accettare l’unicità del Creatore.
A tal proposito il generoso Corano dice:
“Se oltre al Dio Unico fossero esistite altre divinità nell’universo, questo sarebbe certamente andato in sfacelo” (Santo Corano, 21:22)
Il versetto intende dire che se diverse divinità avessero governato l’universo e se, come affermano gli idolatri, ogni parte del cosmo fosse stata diretta da una divinità particolare (e la terra, il cielo, il mare, le foreste avessero avuto ciascuno un dio a parte), la diversità di tali divinità avrebbe fatto sí che in ogni parte dell’universo venisse a stabilirsi un ordine diverso e di conseguenza tutto sarebbe andato in rovina. Vediamo però che esiste una coordinazione perfetta tra le diverse componenti del cosmo; esse, tutte insieme, formano un unico immenso sistema.
Bisogna quindi concludere che è un unico essere che ha creato l’universo e che lo sta magnificamente mantenendo e dirigendo.
Taluni potrebbero a questo punto supporre che siccome questi ipotetici dèi sono saggi e sanno che le loro eventuali divergenze manderebbero in rovina il cosmo, evitano di contrastarsi a vicenda. Questa supposizione è però assurda, poiché una divinità che dirige il creato (o una parte di esso) e ne regge l’ordine, non la bisogno come noi di pensare e meditare sulla creazione per svolgere le proprie azioni. Cerchiamo di spiegare meglio la questione.
Dal momento in cui rivolgiamo la nostra attenzione al mondo e contempliamo lo straordinario ordine dal quale è governato, la nostra mente inizia a raccogliere riguardo al sopraccitato ordine, una serie di informazioni, le quali si pongono a fondamento del nostro sapere, della nostra conoscenza. Successivamente, nel momento in cui ci diamo da fare per soddisfare i nostri bisogni quotidiani, conformiamo le nostre azioni alle sopraccitate informazioni, affinché risultino concordi all’ordine che governa l’intero universo. Ad esempio, per saziarci mangiamo, per dissetarci beviamo, per proteggerci dal freddo e dal caldo indossiamo abiti adeguati. Facciamo tutto ciò in quanto abbiamo visto che nell’ordine universale tali bisogni sono soddisfatti con questi mezzi.
Da questo punto di vista allora le nostre azioni sono subordinate al nostro pensiero, il quale, a sua volta, è subordinato all’ordine universale. Ne risulta che le nostre azioni sono indirettamente subordinate all’ordine cosmico.
Tale subordinazione però non esiste nel caso della divinità che ha creato l’universo (o una parte di esso) e che lo sta mantenendo e dirigendo. È infatti assurdo che tale divinità agisca conformemente a una precedente meditazione che deriva da ciò che essa stessa ha creato e sta mantenendo e dirigendo. Ora, facendo attenzione su quanto è stato sopra detto si comprende l’assurdità della supposizione inizialmente citata.
Quanto è stato finora detto mette chiaramente in evidenza che l’esistenza del Dio Unico è una realtà che non presenta alcun tipo di ambiguità.
Accade tuttavia che alcuni individui siano talmente presi dai problemi della vita da applicare tutte le proprie capacità intellettive alla lotta per la sopravvivenza, da spendere tutto il loro tempo per ottenere i mezzi necessari a vivere, e, di conseguenza, divenga loro impossibile dedicarsi alla soluzione degli interrogativi concernenti l’esistenza di Dio.
In tal modo queste persone dimenticano completamente questa fondamentale realtà e, nella maggior parte dei casi, rapiti dalle seducenti apparenze della natura, non pensano ad altro che divertirsi e fare la bella vita. Siccome poi l’aderire a simili verità previene molte delle abitudini e delle azioni dissolute derivanti dal materialismo, è naturale che si rifiutino di effettuare indagini riguardo a esse, è ovvio che le neghino.
Nel generoso Corano le questioni concernenti la creazione e l’ordine che governa l’intero universo sono state curate maggiormente, discusse con naturali, semplici e allo stesso tempo rigorose argomentazioni. Questo perché la maggior parte degli uomini, ammaliata dalle seducenti apparenze della vita mondana e tendente a identificare la beatitudine umana con la mera fruizione dei beni materiali, non è in grado di meditare in campo filosofico, di esaminare precise teorie razionali.
Non bisogna tuttavia dimenticare che l’uomo è comunque parte del creato ed egli non può, nemmeno per un istante, fare a meno delle altre componenti dell’universo, dell’ordine che lo governa. Può cosí costantemente rivolgere il proprio pensiero all’universo e all’ordine che lo governa e rendersi conto dell’esistenza del Creatore Unico.
Il sacro Corano dedica particolare attenzione a questo fondamentale aspetto dell’esistenza umana e fonda su di esso le sue naturali e precise argomentazioni:
“Invero, nella creazione dei cieli e della terra, per i credenti, vi sono segni che li guidano all’unicità divina. Nella vostra stessa creazione e in quella della moltitudine di animali che Egli ha sparso sulla terra vi sono segni che guidano coloro che credono fermamente all’unicità divina. Nel diversificarsi della notte e del giorno (per le variazioni di durata, temperatura eccetera eccetera, che vengono di continuo a subire), nella pioggia che Dio fa discendere dal cielo, vivificando con essa la terra morta, e nella direzione e nel rivolgimento dei venti da una direzione all’altra vi sono segni e prove che portano i dotati di intelletto ad ammettere tale verità” (Santo Corano,45:3-5)
Nel nobile Corano esistono molti altri versetti che invitano gli uomini a meditare sulla creazione del cielo, del sole, della luna, delle stelle, della terra, delle montagne, dei mari, dei vegetali, degli animali e dell’uomo stesso, facendo loro notare lo strabiliante ordine che governa ciascuna di queste specie.
Certo, meditare sulle stupefacenti verità dell’universo porta l’uomo ad ammette l’esistenza e l’unicità del sommo Vero. Ogni cosa, ogni fenomeno in questo universo è capace di illuminare la mente umana riguardo a Dio.
Il chicco di grano o il nocciolo di mandorlo seminati in terra, germogliano e diventano una spiga o un albero da frutto. Dall’istante in cui essi penetrano nel suolo sino al momento in cui sono pronti a donare i loro frutti operano funzioni organiche straordinariamente estese e complesse.
Le stelle del cielo, il sole splendente, la luna radiante, la terra (con i loro moti di rivoluzione e rotazione, con le loro recondite forze), le misteriose forze contenute in quel chicco di grano, in quel nocciolo di mandorlo, l’alternarsi delle stagioni, le diverse condizioni atmosferiche, le nuvole, la pioggia, il vento, l’alternarsi del giorno e della notte sono tutti fattori che, insieme a moltissimi altri, concorrono alla formazione di una semplice spiga o un normale albero. Non è forse questa un’evidente prova dell’esistenza del Dio Unico?
Ancora piú complessa e stupefacente della nascita di un vegetale (o di qualsiasi altro essere) è quella di un essere umano. Essa infatti è il prodotto di miliardi di anni di complessa e ordinata attività del creato.
Un’altra chiara ed evidente prova dell’esistenza del Dio Unico è il corso della quotidiana vita di un uomo che, a prescindere dai rapporti che ha all’esterno con il mondo che lo circonda, trae origine da uno stupefacente e misterioso ordine che si svolge nell’intimo della sua esistenza. È da secoli che le acute menti degli scienziati sono impegnate a osservare le manifestazioni esteriori di tale ordine e ogni giorno viene scoperto un nuovo segreto. L’argomento è tuttavia cosí esteso e complicato che le ingenti scoperte fatte non sono nulla in confronto a quanto ci sarebbe ancora da scoprire, da conoscere in materia.
Una casa è perfetta quando soddisfa tutte le necessità di una famiglia, vale a dire allorché possiede un numero sufficiente di stanze per abitare e ricevere gli ospiti, una cucina, dei servizi igienici, un bagno eccetera eccetera. In caso contrario la casa sarà imperfetta e il grado di imperfezione sarà tanto maggiore quanto elevato sarà il numero delle componenti necessarie mancanti.
Allo stesso modo, un individuo sarà perfetto quando possederà tutto ciò di cui è dotato un uomo sano e normale.
Definiamo quindi “attributo della perfezione” qualsiasi qualità che sia in grado di soddisfare un particolare tipo di necessità esistenziale, di eliminare un difetto. Ad esempio, la sapienza elimina le tenebre dell’ignoranza e soddisfa il bisogno di sapere, la potenza rimuove l’impotenza e mette chi la possiede nelle condizioni di prevalere su determinate cause, di vincerle.
La nostra coscienza ci dice che il Creatore, vale a dire l’essere dal quale deriva l’esistenza dell’intero universo, Colui che è in grado di soddisfare ogni bisogno possibile e immaginabile, che dona ogni bene e ogni dote esistente, possiede tutti gli attributi della perfezione. È infatti assurdo pensare che un essere possa donare ad altri ciò che nemmeno lui possiede o possa eliminare dagli altri un difetto che lui stesso possiede.
A tal proposito il nobile Corano dice:
“Lui solo è assolutamente autosufficiente ed è in grado di soddisfare le necessità di ogni bisognoso” (Santo Corano, 6:133)
In un altro versetto leggiamo poi:
“I piú belli, i migliori attributi appartengono a Dio che è l’unica, la sola divinità esistente” (Santo Corano, 20:8)
Dio è il creatore assolutamente unico, eterno, autosufficiente, onnipotente, onnipresente, onniveggente, onnisciente. Egli possiede insomma tutti gli attributi della perfezione ed è completamente privo di difetti e limiti.
Se avesse infatti posseduto qualche difetto non sarebbe piú stato totalmente autosufficiente e, di conseguenza, avrebbe avuto determinati bisogni; una divinità, superiore a Esso, avrebbe dovuto quindi provvedere a soddisfarli, il che {in base a quanto abbiamo in precedenza detto sulla Sua unicità} è assurdo.
Constatando l’armonia che governa il cosmo, l’ordine generale e gli ordini particolari che esistono in esso e che guidano ogni fenomeno verso il suo specifico fine, ogni uomo dotato di ragione comprende che l’universo trae la sua origine e viene mantenuto da un essere imperituro, che con la propria infinita potenza e sterminata sapienza ha creato il cosmo, sostenta tutte le Sue creature e le guida verso la loro perfezione finale. Egli è perciò assolutamente onnipotente e onnisciente.
Il Corano ce lo ricorda in numerosi versetti, tra cui:
“Il regno, l’assoluto dominio dei cieli e della terra appartiene a Dio. Egli vivifica e dà morte ed è assolutamente onnipotente. Egli è il Primo e l’Ultimo, il Palese e il Nascosto; egli è assolutamente onnisciente” (Santo Corano, 57:2-3)
Il reale dominio dell’universo appartiene solo ed esclusivamente a Dio. Egli crea ciò che vuole ed è assolutamente onnipotente”.(Santo Corano,5:17)
Spieghiamo piú ampiamente cosa si deve intendere per potere.
Quando diciamo che una tal persona ha il potere di acquistare un’autovettura, intendiamo che possiede il mezzo indispensabile (il denaro) a tal fine. Quando si dice che qualcuno ha la capacità di sollevare un masso pesante piú di cento chili, ciò vuol dire che egli dispone di una forza fisica tale da consentirgli di farlo.
In generale, il potere di fare una data cosa si identifica con il possesso dei mezzi necessari a compierla.
Ora, dal momento che nell’universo ogni essere deve la sua esistenza e la sua vita a Dio l’Altissimo, possiamo affermare che Egli è assolutamente onnipotente.
Per quanto riguarda invece la sapienza divina, siccome tutte le creature devono la loro esistenza e loro vita all’infinito essere di Dio, è impossibile che Egli non le conosca completamente ed è assurdo pensare che sia possibile nascondergli qualcosa. Nulla Gli rimane nascosto ed Egli conosce perfettamente ogni cosa, manifesta o celata che sia.
A tal proposito il Corano dice:
“Dio non conosce forse ciò che Egli stesso ha creato?!” (Santo Corano,67:14)
Dio l’Altissimo è giusto e agisce secondo giustizia, poiché la giustizia è uno degli attributi della perfezione, e, come abbiamo già detto in precedenza, il Signore dei Mondi possiede tutte le qualità a essa inerenti.
Dio nel Corano, a piú riprese, loda la giustizia, biasima l’ingiustizia, ordina alla gente di agire giustamente e vieta loro di comportarsi in modo ingiusto. Com’è allora possibile attribuire a Dio ciò che Egli stesso biasima oppure pensare che non possieda ciò che Egli stesso approva.
Nel nobile Corano Dio, il Supremo, dice:
“Invero Dio non fa il minimo torto ad alcuno” (Santo Corano,4:40)
“Il tuo Signore non fa ingiustizia a nessun essere” (Santo Corano, 18:49)
“Dio non intende far torto ai Suoi servi” (Santo Corano,40:31)
“Ogni bene che ti coglie viene da Dio e ogni male che ti coglie viene da te stesso” (Santo Corano,4:79)
“...Colui che tutto ciò che ha creato, lo ha creato bene”(Santo Corano,32:7)
Riguardo a quest’ultimo versetto è necessario sapere che ogni essere è stato creato in assoluta bellezza e perfezione. Ci si può rendere conto di ciò osservando le creature di Dio in sé. Le bruttezze, i difetti sorgono infatti quando si paragonano i diversi esseri tra di loro.
Ad esempio, il serpente e lo scorpione si rivelano esseri cattive e sgradevoli solo quando vengono paragonati ad altri esseri, ad esempi all’uomo. Del pari, la spina è lungi dall’essere bella se paragonata al fiore. Tuttavia, tali esseri quando vengono considerati in sé si rivelano meravigliosi, straordinari, bellissimi.
È infine errato riferire i peccati umani a Dio, mettendo cosí in discussione la giustizia divina. Il Signore Onnipotente ha considerato, dal punto di vista legislativo, certe azioni volontarie dell’uomo come cattive e gli ha ordinato di non compierle. Attribuire soci e pari a Dio, molestare i genitori, uccidere illecitamente un essere umano, bere vino, giocare d’azzardo sono solo alcuni esempi delle sopraccitate azioni (chiamate solitamente peccati).
Tali atti sono cattivi perché trasgrediscono i comandamenti divini; perciò non possono assolutamente essere riferite a Dio. Vengono invece riferite a coloro che li compiono di proposito, i quali verranno ritenuti responsabili e saranno puniti per averli compiuti.
Numerose azioni sono da noi considerate come frutto della misericordia e viste come atti graditi e lodevoli: dare soccorso a chi si trova in istato di bisogno, salvare un povero sventurato, aiutare un cieco a trovare la sua strada eccetera.
Tutte le azioni di Dio, l’Ausiliatore, l’Autosufficiente, testimoniano l’infinita misericordia che Egli ha per le Sue creature. Elargendo, infatti, i Suoi infiniti doni rende beneficio a tutte le Sue creature; con ogni elargizione soddisfa, in assoluta autosufficienza, una parte dei loro bisogni.
Il Corano dichiara:
“Se voi voleste enumerare i benefici di Dio, non sapreste contarli”.(Santo Corano, 14:34)
“La Mia misericordia si estende ad ogni cosa”.(Santo Corano,7:156)
Dice il nobile Corano:
“Lui solo è assolutamente autosufficiente ed è in grado di soddisfare le necessità di ogni bisognoso” (Santo Corano,6:133)
Ogni virtú esistente nell’universo, ogni attributo della perfezione che è possibile immaginare costituisce un dono che Dio l’Altissimo ha concesso alle Sue creature, soddisfacendo in tal modo una delle necessità della creazione. È ovvio che se Dio non avesse posseduto una di tali virtú, di tali qualità della perfezione non sarebbe stato in grado di donarla alle sue creature e anche lui, al pari delle sue creature, sarebbe stato affetto da bisogno.
Dio possiede pertanto tutti gli attributi della perfezione, come l’eternità, la sapienza, la potenza, la misericordia, la saggezza, la volontà, la divinità, la parola. Egli è inoltre immune da qualsiasi difetto, da qualsiasi cosa che determina bisogno, come l’incapacità, l’ignoranza e la morte.
Dio l’Altissimo con il Suo infinito potere, in assoluta autosufficienza, ha creato l’universo e lo ha colmato di innumerevoli benefici.
Tutte le creature, dal primo giorno della loro comparsa, vengono da Dio sostenute, guidate verso un ben determinato obiettivo e godono costantemente dei suoi benefici. Ci è sufficiente considerare le diverse fasi della nostra vita (dall’allattamento alla vecchiaia, passando per l’infanzia e la gioventú) per comprendere l’infinita cura e l’illimitata misericordia che il Signore ha riversato su di noi.
La persona dotata di sano intelletto, meditando su tale questione, comprenderà che Dio è piú misericordioso di qualsiasi altro essere nei confronti di ciascuna delle Sue creature. È per effetto di questa Sua immensa misericordia che Egli vuole costantemente il bene delle Sue creature e mai desidera il loro danno, la loro rovina.
L’uomo è una delle creature di Dio; noi sappiamo che se aspira alla felicità e alla beatitudine deve essere realista e retto. In altre parole, se l’uomo aspira alla felicità deve avere una fede fondata su saldi e corretti principi, un carattere integro e una buona condotta. Ci chiediamo però a questo punto come può l’uomo raggiungere una tale condizione?
È possibile che qualcuno arrivi alla conclusione che l’uomo tramite il proprio intelletto può distinguere il bene dal male, il vero dal falso e in tal modo raggiungere tale obbiettivo. Bisogna però sapere che l’intelletto da solo non ha il potere di fare ciò, non è in grado di guidare l’uomo al realismo e alla rettitudine. Tutti i vizi e le cattive azioni che tormentano ogni giorno le diverse società umane riguardano infatti uomini dotati di intelletto; esso per effetto di egoismo, avidità e passionalità rimane sopraffatto dai sentimenti, diventa succube delle passioni e di conseguenza essi si traviano, escono dal retto sentiero.
Si conclude quindi che è necessario che Dio l’Altissimo ci guidi verso la beatitudine, ci inviti alla salvezza con un mezzo che, a differenza dell’intelletto, non possa essere soggiogato dalle passioni e sia infallibile nella propria funzione di guida delle genti sul retto sentiero. Si dimostra che questo mezzo non può essere altro che la “missione profetica”.
Da quanto è stato detto riguardo all’unicità divina si è compreso che la formazione e lo sviluppo delle cose, come pure la loro creazione, è opera di Dio l’Altissimo. In altre parole è Dio che guida e dirige ogni essere dell’universo (che dal primo istante della propria comparsa si dà continuamente da fare per sopravvivere, completarsi e diventare cosí relativamente autonomo) sulla via della permanenza e del compimento.
In base a ciò si può con certezza dedurre che ogni specie esistente permane secondo un particolare piano genetico che ogni individuo a essa appartenente esegue col suo specifico modo di vivere. Piú esplicitamente, ogni genere ha una ben determinata serie di doveri nell’armonia dei mondi, verso i quali viene guidata da Dio l’Altissimo.
A tal proposito il nobile Corano afferma:
“(Mosè) disse: ‘Il nostro Dio è Colui che ha donato a ogni cosa la sua particolare natura e poi l’ha guidata” (Santo Corano, 20:50)
Tutte le componenti dell’universo seguono tale norma: le stelle del cielo, la terra che calpestiamo, gli elementi che vi si trovano, i composti che danno luogo ai fenomeni elementari, i vegetali e gli animali. In termini generali, tale condizione si estende anche all’uomo. Il suo caso presenta però una fondamentale differenza, della quale intendiamo ora dare una breve spiegazione.
Il globo terrestre, creato milioni di anni fa, esercitando (nel proprio raggio d’azione e nella misura in cui i fattori contrari gli lo permettono) le proprie recondite forze svolge le sue diverse azioni e produce, con i suoi moti di rotazione e di rivoluzione, gli effetti relativi alla propria esistenza, garantendosi in tal modo la propria permanenza. Fino a quando un fattore piú potente non lo ostacolerà questo straordinario pianeta continuerà a svolgere le sue azioni, a eseguire tutti i doveri che ha nell’ordinato e armonico sistema universale.
Il mandorlo, dal momento in cui il nocciolo da cui deriva germoglia fino al giorno in cui diviene un albero completo, ha determinati doveri inerenti alla propria nutrizione, alla propria crescita, al proprio sviluppo, eccetera eccetera (inerenti cioè al proprio itinerario di vita), ai quali adempierà, o meglio sarà obbligato a adempiere, finché un fattore contrario e piú forte non lo ostacolerà.
Lo stesso avviene per tutti gli altri esseri dell’universo, a eccezione dell’uomo che presenta una peculiare caratteristica: l’arbitrio.
Egli può rifiutare di compiere un’azione che non comporta ostacoli e gli è interamente favorevole e, al contrario, impegnarsi in un’azione che risulti per lui completamente deleteria. Talvolta rifiuta di prendere un antidoto, talaltra beve un veleno per porre fine ai suoi giorni.
È chiaro che Dio, che (come è già stato detto in precedenza) guida tutte le Sue creature verso il bene e la perfezione, non costringerà una creatura dotata di arbitrio a seguire il retto sentiero. Ciò è confermato dal comportamento dei Profeti, inviati da Dio Onnipotente per guidare l’uomo verso il bene, la perfezione e la beatitudine.
Essi, da parte di Dio l’Altissimo, annunciano all’uomo la via del bene e della beatitudine e quella del male e della perdizione; comunicano ai seguaci della religione di Dio che riceveranno da Lui una generosa ricompensa per il loro retto agire e li fanno sperare nella misericordia divina. Mettono invece in guardia gli empi e i peccatori dal castigo divino; gli uomini saranno poi liberi di scegliere tra il bene e il male, tra la beatitudine e la perdizione.
Questo è ciò che ha disposto il Signore per guidare l’uomo verso il bene, la perfezione e la beatitudine e salvarlo dal male, dai vizi e dalla perdizione.
Ora, se è vero che l’uomo attraverso il proprio intelletto è in grado di comprendere in modo generale il bene e il male, è anche vero che questo stesso intelletto (come è già stato detto in precedenza) viene per lo piú sopraffatto dalle passioni e talvolta cade anche in errore.
È perciò necessario che Dio, oltre all’intelletto, metta a disposizione dell’uomo un mezzo assolutamente infallibile e insoggiogabile. In altre parole, è necessario che il Signore confermi con un mezzo invincibile i precetti che fa comprendere, in modo generale, attraverso l’intelletto. Questo insormontabile mezzo è appunto la “profezia”: Dio l’Altissimo rivela a uno dei Suoi servi {il profeta} i Suoi salvanti precetti e lo incarica di trasmetterli agli uomini e di indurli (facendoli sperare nella Sua ricompensa e mettendoli in guardia dal Suo castigo) a seguire queste sacre leggi.
Dice Dio l’Altissimo nel nobile Corano:
“Invero Ci siamo rivelati a te {o profeta Muhammad (S)} come Ci siamo rivelati a Noè e ai profeti che vennero dopo di lui… Inviammo agli uomini dei messaggeri, i quali comunicarono ai seguaci della religione di Dio che avrebbero ricevuto da Lui una generosa ricompensa per il loro retto agire, mettendo invece in guardia gli empi dal castigo divino, affinché dopo i Messaggeri la gente non avesse potuto piú argomentare contro Dio per non aver potuto disporre di questo tipo di guida” (Santo Corano,4:163-165)
Da quanto precede risulta che è necessario che il Signore Onnipotente istruisca alcuni dei Suoi servi sui princípi e le leggi che garantiscono la beatitudine umana e li invii agli uomini come Suoi messaggeri.
L’uomo incaricato di trasmettere i messaggi divini è chiamato “profeta” o “inviato di Dio” e l’insieme dei messaggi divini trasmessi da esso agli uomini prende il nome di “religione”.
Da quanto è stato detto in precedenza è inoltre facile dedurre che il profeta deve:
Essere immune dall’errore nell’esecuzione della propria missione, affinché possa trasmettere agli uomini la rivelazione, senza il minimo errore. In caso contrario, la guida divina risulterebbe inefficace e la “Legge della Guida Universale”, implicitamente citata in precedenza, perderebbe la sua generalità, il che, in base a quanto è stato in precedenza detto, è assurdo. A tal proposito, il Corano dice:
“Il Conoscitore dell’Occulto non lo manifesta ad alcuno, salvo che a colui che sceglie come messaggero. Egli lo fa sorvegliare affinché i messaggi divini vengano trasmessi alla gente senza il minimo errore, cosí come gli sono stati rivelati” (Santo Corano, 77:26-28)
Essere immune dal peccato, in quanto la minima trasgressione annullerebbe la sua credibilità e renderebbe di conseguenza inefficace la sua missione. La gente non dà infatti alcun valore alle parole dell’individuo i cui atti contraddicono le sue parole; la sua cattiva condotta viene persino presa come evidente prova della sua falsità. Si può riassumere quanto è stato detto finora riguardo agli attributi del profeta dicendo che affinché la trasmissione dei messaggi divini avvenga in modo corretto e risulti efficace è necessario che il profeta sia immune dall’errore e dal peccato.
Possedere tutte le virtú morali, come il pudore, il coraggio, la giustizia, eccetera eccetera. Infatti, chi è immune da ogni sorta di peccato e osserva integralmente la religione di Dio non può avere alcun vizio.
La storia conferma che diversi profeti sono venuti tra gli uomini per invitare la gente a aderire alla religione di Dio. La loro biografia non ci è però molto chiara, a eccezione di quella del nobile profeta Muhammad (S).
Il nobile Corano descrive la missione dei Profeti e mette bene in luce i loro obbiettivi. In questo celeste libro troviamo che il Signore Onnipotente ha inviato numerosi messaggeri per invitare gli uomini a aderire al monoteismo e alla religione di Dio:
“Non abbiamo inviato alcun profeta prima di te senza avergli rivelato: ‘Non v’è altra divinità all’infuori di Me! Adorate dunque solo Me!’” (Santo Corano,21:25)
I profeti che hanno apportato un libro ispirato e una legislazione indipendente sono cinque: Noè {Nuh}, Abramo {Ibràhim}, Mosè {Musa}, Gesú {Isà} e Muhammad (S).
Riguardo a loro il Corano afferma:
“Dio vi ha decretato una religione che raccomandò {in precedenza} a Noè. Ciò che abbiamo rivelato a te {o profeta Muhammad (S)} e raccomandato ad Abramo, Mosè e Gesú è: ‘Innalzate la religione {preservatela cioè aderendovi e mettendola in pratica} e non dissentite su di essa’” (Santo Corano,42:13)
Questi cinque profeti, chiamati “Profeti Ulil’azm {risoluti}”, non sono i soli inviati di Dio; numerosi altri profeti sono stati infatti inviati all’umanità. Secondo quanto dice il nobile Corano, ogni popolo ha avuto il suo profeta:
“Ogni nazione ha avuto il suo profeta” (Santo Corano,10:47)
“Ogni popolo ha avuto la sua guida”(Santo Corano,13:7)
Per quanto riguarda poi i nomi di questi nobili profeti, il sacro Corano ne cita solo venti:
“Vi sono profeti di cui ti abbiamo parlato e altri di cui non ti abbiamo parlato” (Santo Corano,40:78)
Gli inviati di Dio venuti dopo ciascuno dei Profeti Ulil’azm hanno invitato l’uomo a seguire la legislazione apportata da questi ultimi. La funzione profetica si è cosí perpetuata sino al giorno in cui Dio inviò Muhammad (S) Ibniabdillàh(S), l’ultimo del profeti divini, per trasmettere all’uomo l’ultima e la piú completa legislazione religiosa e inviare il Corano, che è l’ultimo e il piú completo libro ispirato. È per questo motivo che la religione portata da questo nobile profeta non perirà mai e la sua legislazione rimarrà in vigore fino al Giorno del Giudizio.
Noè fu il primo dei profeti apportatori di legislazione e libro ispirato. Egli invitò gli uomini del suo tempo a aderire al monoteismo, a non adorare altri all’infuori di Dio l’Unico e a liberarsi del politeismo e dell’idolatria.
Secondo il glorioso Corano questo nobile profeta lottò tenacemente per mettere fine alle differenze di classe, all’oppressione, all’ingiustizia e si sforzò di insegnare quanto gli era stato rivelato da Dio attraverso l’argomentazione, cosa del tutto nuova per gli uomini di quell’epoca.
Predicò per un lungo periodo la religione di Dio e a parte un ristretto numero di persone il resto della gente preferí restare nell’ignoranza e nell’abiezione. Il signore allora, provocando un diluvio, purificò il mondo di queste empie creature. Solo Noè e i suoi seguaci furono risparmiati e destinati a ricostituire sulla terra una società religiosa.
Questo venerato profeta fondò il monoteismo e fu il primo incaricato divino che combatté l’ingiustizia, la tirannia e l’empietà. È per questo servizio inestimabile che ha reso alla religione di Dio che ha ricevuto dal Signore una benedizione della quale godrà fino alla fine del mondo:
“Sia benedetto Noè tra la gente del mondo” (Santo Corano,37:79)
Molti anni passarono dalla scomparsa del santo Noè. Benché dopo di lui numerosi altri profeti (quali Hud e Sàlih) avessero guidato anche loro gli uomini verso Dio e alla rettitudine, giorno dopo giorno, il politeismo e l’idolatria si diffusero, fino ad arrivare al punto da conquistare l’intero mondo. Fu cosí che il Signore Onnipotente, nella Sua imperscrutabile saggezza, inviò Abramo.
Egli era il perfetto esempio di uomo puro. Con intento sincero e senza il minimo pregiudizio si mise alla ricerca della verità e comprese che all’infuori del Creatore dell’universo non v’è altra divinità. Egli inoltre combatté senza posa contro il politeismo e la tirannia.
Come afferma chiaramente il Corano e confermano le tradizioni degli Imam dell’Ahl ul-Bayt, Abramo trascorse il periodo della propria fanciullezza in una grotta lontano dallo strepito delle masse e dal tumulto delle città. Non vedeva che sua madre, che, di tanto in tanto, gli portava da mangiare e da bere.
Un giorno ritornò in città con la madre e andò a casa dello zio Àzar. Là ogni cosa gli parve sconosciuta e assai stupefacente; con infinito interesse e assoluta calma, immerso nello stupore e nella meraviglia, esaminava attentamente gli oggetti e le cose che lo circondavano e cercava di scoprire la causa della loro esistenza. Vide delle persone, tra cui lo zio Àzar, adorare idoli da loro stessi fabbricati. Cercò allora di informarsi intorno a quegli oggetti, ma le spiegazioni che gli vennero date sulla loro presunta divinità non lo convinsero.
Vide poi alcuni adorare la stella Diana, altri adorare la luna e altri ancora il sole. Siccome però ognuno di questi astri tramontava nel giro di qualche ora, Abramo non credette alla loro natura divina.
Dopo tali esperienze e constatazioni, Abramo, senza riserbo, annunciò alla gente la sua sottomissione all’unica divinità esistente e la sua totale e fortissima avversione verso il politeismo e l’idolatria.
Fu cosí che il nobile Abramo si dedicò a combattere l’idolatria e il politeismo e a lottare instancabilmente contro gli idolatri per ricondurli alla fede nel Dio Unico. Riuscí addirittura a penetrare nel locale dove erano conservati gli idoli e li frantumò. Per tale atto (considerato dagli idolatri come il piú grande “crimine”) fu processato e condannato al rogo. Vennero cosí eseguiti i relativi rituali e dopodiché il probo Abramo fu gettato crudelmente nelle fiamme, dalle quali venne però salvato da Dio Onnipotente.
Qualche tempo dopo lasciò la Babilonia, di cui era originario, per raggiungere la Siria e la Palestina; in quelle terre egli proseguí la sua missione profetica.
Verso la fine dei suoi giorni ebbe due figli: l’uno Isacco {Ishàq}, da cui discendono i figli d’Israele, l’altro Ismaele {Ismàil}, da cui discendono gli Arabi.
Egli condusse, per ordine del Signore, Ismaele ancora lattante e la madre di Ismaele nell’Hijàz. Stabilí la sua famiglia tra le montagne della zona di Tihàmah, in una terra arida e disabitata e invitò cosí gli Arabi nomadi ad abbracciare il monoteismo. Edificò poi la Ka’bah e istituí il pellegrinaggio alla Mecca {Alhajj}, che rimase una pratica diffusa tra gli Arabi fino all’avvento dell’Islam.
La religione portata da Abramo era conforme alla natura umana. Egli, secondo quanto afferma espressamente il Corano, portò un libro ispirato e fu il primo a chiamare la religione di Dio “islàm” {sottomissione} e i suoi seguaci “muslimín” {sottomessi}.
Le religioni monoteistiche e cioè il Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islàm, discendono tutte da Abramo. Mosè, Gesú e Muhammad (S), profeti di queste tre religioni, appartenevano infatti tutti alla progenie di Abramo ed erano nella sua stessa linea di invito.
Mosè, figlio di Imràn, era il terzo dei Profeti Ulil’azm e apparteneva alla progenie di Israele (Giacobbe).
Ebbe una vita assai travagliata. Quando nacque, i figli d’Israele vivevano tra i Copti (in Egitto) in istato di abiezione e prigionia e, per ordine del Faraone, i loro figli venivano decapitati. La madre di Mosè, in base a quanto gli era stato ordinato da Dio in sogno, depose Mosè in una cesta e la lasciò andare alla deriva sul Nilo. La corrente fece allora approdare la cesta davanti al palazzo del Faraone.
Su ordine di questi, la cesta fu raccolta; quando fu aperta ne uscí un piccolo neonato. Il faraone cedette alle insistenze della moglie e rinunciò a uccidere il bambino. Siccome poi i sovrani non avevano figli, essi l’adottarono e l’affidarono a una nutrice, che altri non era che la sua stessa madre.
Mosè visse alla corte del Faraone fino agl’inizi della sua gioventú, dopodiché, avendo ucciso una persona, fuggí dall’Egitto e si rifugiò nella città di Madian. Là conobbe il profeta Sciuàib e ne sposò la figlia. Dopo aver trascorso alcuni anni presso Sciuàib come pastore delle sue greggi, Mosè decise di ritornare in Egitto. Con sua moglie, i figli e il suo bestiame, tornò quindi al paese natale; lungo il cammino, quando nottetempo arrivò al monte Sinai, il Signore Onnipotente lo incaricò della missione profetica.
Doveva inizialmente invitare il Faraone a convertirsi al monoteismo, liberare i figli d’Israele dal giogo copto e prendere suo fratello Aaronne come proprio ministro. Il Faraone, che era idolatra e si presentava agli Egiziani come una divinità, respinse l’invito di Mosè e si rifiutò di riconoscere la sua missione e di liberare i figli d’Israele.
Benché Mosè richiamasse per anni gli Egiziani al monoteismo e realizzasse a tal proposito numerosi miracoli, il Faraone e il suo popolo seppero solo dimostrarsi ostinati e sgarbati nei suoi confronti.
Alla fine, su ordine divino, Mosè partí nottetempo con i figli di Israele verso il Deserto del Sinai. Quando raggiunsero il Mar Rosso, il Faraone venne a conoscenza dell’esodo e si lanciò con le sue truppe al loro inseguimento. Fu in quella circostanza che Mosè, con un miracolo, divise le acque e con il suo popolo varcò il mare, il quale si richiuse davanti al Faraone e ai suoi uomini annegandoli.
Dopo questo avvenimento Dio gli rivelò la Torà e istituí tra i figli d’Israele la legge ebraica.
Gesú, il quarto dei Profeti Ulil’azm, apportò anch’egli un libro ispirato e una legislazione religiosa.
La sua nascita avvenne in modo del tutto eccezionale: sua madre, Maria {Mariam}, che era una casta vergine, stava pregando nella città di Bàitulmuquaddàs {Città Santa}, quando d’un tratto discese Rúhulquddús {l’arcangelo Gabriele} e le annunciò, da parte di Dio, la venuta del Messia. Con un leggero soffio sulla manica del vestito della nobile donna, la fecondò poi del Cristo.
Dopo la sua nascita, dinanzi alle ingiuste accuse che la gente rivolgeva a sua madre, il neonato (ancora nella culla) prese le sue difese e annunciò agli uomini la sua missione profetica e il libro ispiratogli da Dio.
Iniziò in età giovane a predicare la religione di Dio e restaurò, con qualche modifica, la legislazione apportata da Mosè. Inviò poi alcuni dei suoi discepoli nelle diverse regioni a predicare la sua religione.
Qualche tempo dopo la divulgazione del suo messaggio, i Giudei {il popolo di Gesú} tentarono di ucciderlo; Dio però lo salvò e gli Ebrei uccisero un altro al suo posto.
Nel nobile Corano è detto che un libro ispirato, chiamato “Ingíl” {Vangelo} è stato rivelato a Gesú. Questo però non si identifica con alcuno dei Vangeli scritti dopo di lui (e relativi alla sua vita e alla sua predicazione) dei quali solo quattro, quelli composti da Luca, Marco, Matteo e Giovanni, sono stati ufficialmente riconosciuti {dalle chiese cristiane}.
La biografia del venerato profeta Muhammad (S) è conosciuta meglio di quella di qualsiasi altro profeta. Col passare del tempo e per effetto delle evoluzioni storiche avvenute, il libro celeste, la legge religiosa e persino la divina personalità dei profeti che lo hanno preceduto hanno subito notevoli alterazioni, le quali hanno, di conseguenza, reso ambigue le loro biografie.
Invero, all’infuori delle limitate nozioni forniteci dal Corano e dalle tradizioni del Profeta e della sua Ahl ul-Bayt {Alí, Fatima e dodici infallibili Imam da loro discendenti}, non v’è nulla di preciso e chiaro riguardo alla loro biografia.
Al contrario, la biografia del nobile profeta Muhammad (S) è assai chiara ed è in grado di descrivere a sufficienza i diversi caratteri della sua straordinaria vita.
L’amatissimo profeta dell’Islam è l’ultimo dei messaggeri che il Signore misericordioso ha inviato agli uomini per guidarli sul retto sentiero. Quattordici secoli orsono, del monoteismo non era rimasto che un semplice nome e gli uomini avevano totalmente abbandonato l’adorazione del Dio Unico, si erano completamente allontanati dalla fede in Dio, dall’umanità e dalla giustizia. La sacra Ka’bah era divenuta un santuario di idoli e la religione di Abramo s’era trasformata in idolatria.
Gli Arabi conducevano una vita strettamente tribale, persino nelle diverse città che avevano formato nell’Hijàz e nello Yemen. Essi vivevano in condizioni tra le piú vili e arretrate: in luogo della civiltà e della virtú, tra la gente regnava la scostumatezza e il vizio e peccati quali bere vino e giocare d’azzardo erano assai diffusi; le figlie femmine venivano sotterrate vive e la maggior parte della gente si procurava da vivere attraverso il furto, il brigantaggio, l’omicidio e il saccheggio dei beni e del bestiame altrui. Essere sanguinari, spietati e tiranni era poi il piú gran vanto.
In un tale ambiente il Signore misericordioso scelse Muhammad (S) per riformare e guidare l’intera umanità; gli rivelò quindi il Corano (comprendente sublimi conoscenze, preziose nozioni che aiutano l’uomo a conoscere Dio, un concreto programma per realizzare la giustizia e utili ammonimenti) incaricandolo di invitare, servendosi di questo divino libro, la gente a comportarsi in modo umano e a aderire alla verità.
Il sommo Profeta nacque alla Mecca nell’anno 570 dopo Cristo (cioè cinquantatré anni prima dell’Egira) nella piú nobile e onorata delle famiglie arabe.
Prima di venire al mondo perse suo padre e dopo aver perso, all’età di sei anni, anche la madre, fu il nonno Abdulmuttalíb a prendersi cura di lui. Quest’ultimo però morí due anni dopo e il nobile bambino passò cosí sotto la diretta tutela del suo gentile zio Abutàlib (padre di Alí, il Principe dei Credenti). Egli amò il suo nobile nipote come un suo stesso figlio e fino a pochi mesi prima dell’Egira non mancò mai di proteggerlo e sostenerlo.
Gli Arabi della Mecca, come gli altri Arabi, allevavano pecore e cammelli e talvolta commerciavano con i paesi vicini, in particolare con la Siria. Erano ignoranti e rozzi, in nessun modo interessati all’istruzione e all’educazione dei propri figli. Muhammad (S), al pari degli altri, non aveva imparato né a leggere né a scrivere.
Tuttavia, sin dall’infanzia si distinse dagli altri per le sue virtú: non adorava mai idoli, non mentiva, non rubava, non tradiva, non commetteva mai atti turpi, non si comportava mai in modo superficiale ed era dotato di una straordinaria intelligenza e di grandi capacità. Queste nobili qualità gli fecero in breve tempo acquistare una notevole popolarità tra la gente. Divenne cosí famoso con l’appellativo di “Al-amín” {il Fidato}. Era per questa sua straordinaria fidatezza che la gente affidava per lo piú a lui i beni che intendeva depositare e lodava la sua onestà e le sue grandi capacità.
Aveva all’incirca vent’anni quando una delle ricche dame della Mecca, la nobile Khadíjah, lo scelse come suo agente commerciale. L’onestà, l’intelligenza e le notevoli capacità di Muhammad (S) assicurarono abbondanti guadagni a Khadíjah che attratta sempre di piú dalla sua straordinaria personalità, gli propose di sposarla. Dopo il matrimonio il giovane Muhammad (S) continuò per diversi anni le attività commerciali della moglie.
Fino a quarant’anni, egli intrattenne normali rapporti con la gente e venne considerato uno dei membri della comunità; a differenza degli altri però possedeva un carattere integro, una condotta esemplare e aborriva l’oppressione, la crudeltà e l’arrivismo. Tali virtú gli avevano fatto guadagnare il rispetto e la fiducia della gente. Si narra che un giorno, durante i lavori di riparazione della Ka’bah, sorse una disputa tra le diverse tribú su chi dovesse collocare al suo posto la Pietra Nera {Hajar ul-Aswàd}.
Per risolvere la controversia scelsero unanimemente il nobile Muhammad (S) come arbitro. Quest’ultimo fece depositare questa sacra pietra in un mantello e i capi delle tribú presero i lembi del mantello e lo alzarono; fu poi il nobile Muhammad (S) a collocarla al suo posto. Grazie a questo intervento, il litigio si risolse senza alcun spargimento di sangue.
Prima dell’inizio della sua missione profetica, benché fosse monoteista e quindi categoricamente contrario all’idolatria e al politeismo, siccome non combatteva direttamente le assurde e superstiziose credenze degli idolatri, la gente era in pace con lui, come lo era del resto con i seguaci delle altre religioni (quali i Giudei e i Cristiani) che vivevano in pace con gli Arabi idolatri.
Al Tempo in cui Muhammad (S) viveva presso suo zio Abutàlib e non aveva ancora raggiunto la pubertà, accompagnò quest’ultimo in un suo viaggio di affari in Siria.
Era una carovana assai imponente e un folto gruppo di persone viaggiava assieme a dell’abbondante mercanzia. Dopo essere penetrata in territorio siriano e aver raggiunto la città di Busrà fece una sosta nelle vicinanze di un monastero. Un monaco chiamato Bahirà uscí dal convento e invitò i viaggiatori a riposare all’interno del monastero. Abutàlib, al pari degli altri viaggiatori, accettò l’invito lasciando Muhammad (S) a sorvegliare i suoi beni. Bahirà, venuto a sapere che tutti erano presenti nel convento tranne Muhammad (S), chiese che lo si facesse entrare. Abutàlib chiamò allora il nipote e insieme si recarono dal monaco.
Dopo aver a lungo scrutato il nobile Muhammad (S), Bahirà lo prese da una parte e disse: “Giurami nel nome di Lat e Uzzà (due idoli adorati dagli abitanti della Mecca) che risponderai a quanto ti chiederò ora”. Muhammad (S) rispose: “Questi due idoli sono le cose che detesto maggiormente”. Il monaco disse allora: “In nome del Dio Unico, ti prego di dire la verità”. Il nobile bambino rispose: “Io dico sempre la verità, non ho mai mentito in vita mia; rivolgimi la tua domanda”. Bahirà chiese allora: “Qual è la cosa che ami di piú?”.
Rispose: “La solitudine”. Il saggio monaco allora lo interrogò di nuovo: “Che cosa ami guardare di piú?”. Rispose: “Il cielo e le sue stelle”. A questo punto Bahirà chiese: “A che cosa pensi?”. Muhammad (S) rimase in silenzio e Bahirà guardò attentamente la sua fronte; disse poi: “Quando e con quali pensieri ti addormenti?”. Rispose: “Quando, guardando le stelle, le sento vicine a me, mi vedo sopra di esse”. Bahirà chiese allora “Fai anche sogni?”. Muhammad (S) rispose: “Sí e tutto quel che sogno lo vedo pure quando sono desto”.
Il monaco proseguí chiedendo: “Che cosa vedi in sogno?” e Muhammad (S) non disse nulla; dopo un momento di silenzio il saggio uomo si rivolse al nobile Muhammad (S) e gli disse: “Posso vederti tra le spalle?”; quest’altro acconsentí e Bahirà, denudandogli le spalle, scoprí un neo: “È proprio questo” mormorò. Abutàlib sorpreso gli chiese: “A che cosa ti riferisci? Cosa vuoi dire?”. Bahirà rivolgendosi allo zio del nobile bambino gli chiese: “Qual è il legame di parentela che ti lega a questo giovane”. Dal momento che Abutàlib amava Muhammad (S) come un suo stesso figlio, affermò: “È mio figlio”.
Replicò allora Bahirà: “No, il padre di questo giovane deve essere già morto”, “Come fai a saperlo?” chiese Abutàlib sorpreso, prima di rivelare al monaco che Muhammad (S) era suo nipote. Bahirà disse allora ad Abutàlib: “Ascoltami bene, un radioso e sorprendente avvenire attende questo giovane. Se altri oltre a me vedranno ciò che io ho visto e lo riconosceranno, lo uccideranno. Devi nasconderlo e proteggerlo dai nemici”. Abutàlib domandò allora: “Dimmi chi è!”. Bahirà disse: “Nei suoi occhi e sul suo dorso vi sono due inconfondibili segni di riconoscimento di un grande profeta del futuro”.
Qualche anno piú tardi Muhammad (S) si recò nuovamente in Siria, ma questa volta in qualità di agente commerciale della nobile Khadíjah. Quest’ultima lo fece accompagnare dal suo servo Maisaràh raccomandandogli di prestargli assoluta ubbidienza.
Dopo essere penetrati in territorio siriano, fecero una sosta nei pressi della città di Busrà. Nelle vicinanze v’era l’eremo di un monaco chiamato Nasturà che già conosceva Maisaràh. Il monaco rivedendo Maisaràh, riferendosi a Muhammad (S), gli chiese: “Chi è quell’uomo che sta riposando sotto quell’albero?”. Egli rispose: “È un uomo della tribú dei Quraish”. Il monaco dichiarò allora: “Sotto quell’albero non fanno tappa se non i profeti di Dio”. Poi domandò:” I suoi occhi presentano forse segni di arrossamento”. Maisaràh rispose: “Si, costantemente”. Nasturà concluse: “E proprio lui! Egli è l’ultimo dei profeti di Dio. Potessi vedere il giorno in cui riceverà da Dio l’incarico di invitare la gente alla Sua religione!”
Numerose tribú ebree, avendo saputo dalle loro scritture del profeta Muhammad (S) e del luogo in cui sarebbe sorto, avevano lasciato la loro patria per andare a insediarsi nell’Hijàz. Fermatisi a Medina e nei dintorni di questa città, vissero per anni nell’attesa dell’avvento del profeta dell’Islam.
Poiché i membri della comunità trapiantata erano ricchi e opulenti, succedeva che talvolta fossero depredati dagli Arabi. Ma gli Ebrei sopportavano pazientemente tali soprusi e si lamentavano sempre con coloro che li opprimevano dicendo: “Sopporteremo i vostri saccheggi, i vostri soprusi fino al giorno in cui il Profeta Illetterato emigrerà dalla Mecca per venire a stabilirsi a Medina. Sarà allora che noi, dopo avergli prestato fede, ci vendicheremo di voi”.
Fu in tal modo che gli Arabi di Medina acquistarono una precedente conoscenza della missione profetica del nobile Muhammad (S). Tale conoscenza divenne in seguito uno dei principali fattori della loro rapida conversione all’Islam. Accadde poi che essi si convertirono, mentre gli Ebrei, a causa del loro fanatismo, si rifiutarono di prestare fede al profeta che tanto avevano atteso e del cui avvento tanto avevano parlato.
A tal proposito il Corano dice:
“Quando il Libro di Dio {il Corano} giunse ai Giudei, sebbene esso confermasse le conoscenze e gli insegnamenti del libro ispirato da loro accettato e seguito, la Torà, e sebbene da tempo aspettassero di vincere (con l’aiuto del profeta dell’Islam) gli Arabi miscredenti, essi non si convertirono. Sia dunque la maledizione di Dio sui miscredenti”(Santo Corano,2:89)
A proposito invece della conversione di un gruppo di persone appartenenti alla Gente del Libro {Cristiani ed Ebrei} dice:
“...presto concederò la Mia misericordia a coloro che si comportano rettamente, che pagano la zakàh e che credono ai Nostri segni; {la concederò a} quelli {della Gente del Libro} che seguono l’Inviato, il Profeta Illetterato, il cui nome e i cui connotati vengono da loro trovati nella Torà e nel Vangelo. Egli ordina loro di compiere il bene, vieta loro di commettere il male, rende loro lecite le cose pulite e gradevoli e illecite le immonde e repellenti; egli li ha alleviati da ogni tipo di difficoltà e fatica, e, spezzando le catene che li tenevano legati, ha donato loro la libertà” (Santo Corano,7:156-157)
Il Signore Onnipotente suscitò nella penisola arabica (che era, senza esagerazione, un ricettacolo di miseria, corruzione e tirannia) il Suo prediletto profeta, il nobile Muhammad (S), incaricandolo di invitare l’umanità a aderire al monoteismo, rispettare la giustizia, compiere il bene e consolidare i rapporti sociali.
Fu incaricato di seguire e difendere costantemente e decisamente la verità e la giustizia e di fondare le basi della beatitudine umana sul principio della fede, del timor di Dio, della solidarietà e dell’abnegazione.
All’inizio il Profeta era stato incaricato solo di invitare la gente ad abbracciare l’Islam e poiché l’ambiente in cui si trovava era pieno d’oppressione, crudeltà e ostinatezza, parlò della sua missione divina solo a chi sperava che accettassero il suo divino invito. In questa prima fase della sua missione, non vi fu perciò che un numero ristretto di fedeli.
Secondo le tradizioni, la prima persona che accettò l’invito del Profeta fu suo cugino paterno Alí (figlio d’Abutàlib); dopo di lui si convertí Khadijah, la nobile moglie del profeta Muhammad (S).
Trascorso un certo tempo, egli ricevette l’ordine di invitare i suoi parenti stretti ad accettare la fede islamica; seguendo il decreto divino convocò i parenti (circa una quarantina di persone) a casa sua e annunciò loro la missione affidatagli dal Signore.
Dopo un po’ il sommo Profeta, per ordine divino, rese pubblico il suo invito e lo estese all’intera umanità. La reazione degli Arabi, in special modo della gente della Mecca, fu assai dura: i miscredenti e i politeisti respinsero con ferocia e crudeltà questo sincero invito del profeta Muhammad (S).
Talvolta lo chiamavano indovino e stregone, talaltra pazzo e poeta. Era schernito e canzonato e quando si accingeva a invitare la gente ad abbracciare la neonata religione islamica, oppure quando voleva eseguire i suoi atti d’adorazione, veniva brutalmente ostacolato dall’infernale baccano dei suoi nemici, i quali giunsero persino a versargli in testa della spazzatura e dello sterpame, a picchiarlo, insultarlo e a prenderlo a sassate.
Talvolta poi si tentava di corromperlo, promettendogli potere, denaro e simili, nella speranza di sviarlo in tal modo dal suo sacro obiettivo. Tutti questi tentativi risultarono però vani poiché il Profeta restò impassibile.
Talvolta si rattristava e rimaneva dispiaciuto per l’ignoranza e l’ottusità del suo popolo. È per questo che in alcuni versetti del Corano, il Signore Eccelso lo conforta ordinandogli di portare pazienza. In altri invece gli ordina di non dare assolutamente retta alle parole della gente e di continuare, con la massima decisione, la propria missione.
Coloro che si convertirono all’Islam furono fatti oggetto di terribili torture e tormenti dai miscredenti; spesso accadeva che alcuni di loro perdessero la vita a causa di tali torture. A volte, la pressione diveniva talmente intollerabile che i fedeli chiedevano al Profeta il permesso di organizzare una sanguinosa rivolta e porre cosí fine all’oppressione dei loro empi nemici. Il Profeta diceva però: “A tal proposito non ho ricevuto alcun ordine da Dio l’Eccelso: occorre pazientare”. Alcuni, sfiniti dai continui soprusi dei miscredenti, raccolsero la loro roba ed emigrarono.
A un certo punto la situazione divenne talmente critica per i Musulmani che il nobile Profeta autorizzò i propri compagni a emigrare in Abissinia per mettersi cosí al riparo, per un certo periodo, dalle torture e dalle molestie della propria gente. Un gruppo di fedeli, capeggiato da Ja’far {figlio di Abutàlib, fratello del Principe dei Credenti e uno dei migliori compagni del sommo Profeta}, si trasferí quindi in Abissinia.
Quando i miscredenti della Mecca vennero a sapere dell’esilio dei Musulmani mandarono due dei loro abili ed esperti uomini, con una notevole quantità di doni, a chiedere al Negus l’estradizione degli esiliati. Ja’far con uno straordinario discorso tenuto alla presenza del Negus, dei sacerdoti cristiani e delle diverse autorità abissine, descrisse loro la divina personalità del sommo profeta Muhammad (S) e recitò anche alcuni versetti della “Sura di Maria”.
Le sue sincere parole erano talmente profonde e incantevoli che fecero piangere tutti, compreso il Negus. Quest’ultimo si rifiutò ovviamente di estradare gli esuli e respinse altresí i doni inviatigli dai miscredenti della Mecca. Ordinò poi di facilitare la residenza dei profughi musulmani e di mettere a loro disposizione ogni comodità.
Dopo questo fallimento, i miscredenti della Mecca concordarono di troncare ogni rapporto con i Baní Hàshim, parenti e seguaci del Profeta, e di isolarli e interrompere ogni loro relazione economica e sociale con l’esterno. Redatto in tal senso un accordo, lo fecero firmare a tutti e lo deposero nella Ka’bah.
I Baní Hàshim, accompagnati dal sommo Profeta, si trovarono costretti a lasciare la Mecca. Si rifugiarono in una gola conosciuta con il nome di “Gola di Abutàlib”, nella quale vissero per lungo tempo nelle piú difficili condizioni. Nessuno aveva il coraggio di uscire dalla gola, nella quale si doveva sopportare, durante il giorno, un tremendo caldo e, di notte, i lamenti delle donne e dei bambini.
Tre anni dopo i miscredenti a causa della scomparsa del documento deposto nella Ka’bah e dei numerosi rimproveri ricevuti dalle tribú della regione per il disumano atteggiamento da loro assunto nei confronti dei Baní Hàshim, rinunciarono all’accordo e questi ultimi poterono cosí porre termine al loro esilio.
Fu in quel periodo che la giovane comunità islamica perdette il nobile Abutàlib, unico protettore del sommo Profeta, e la generosa Khadíjah. Con la scomparsa di questi due saldi sostegni la vita del Profeta si complicò notevolmente; egli non poteva piú mostrarsi in pubblico e la sua vita era costantemente in pericolo.
L’anno in cui il sommo Profeta e i Baní Hàshim uscirono dalla “Gola di Abutàlib” era il tredicesimo della sua missione. In esso compí un breve viaggio a Taièf (città situata a circa cento chilometri dalla Mecca) e invitò gli abitanti di questa città ad abbracciare l’Islam. Gli ignoranti e i malvagi di Taièf si riversarono da ogni parte della città e iniziarono a ingiuriare e a prendere a sassi il Profeta; gli empi riuscirono alla fine a scacciarlo dalla città.
Tornò quindi alla Mecca e vi rimase per un certo periodo. Anche in questa città, come è già stato detto in precedenza, v’erano individui ignoranti e malvagi che gli erano fortemente ostili; di conseguenza, la sua vita era costantemente in pericolo.
I notabili della Mecca, ravvisando circostanze favorevoli, decisero nel corso di una riunione segreta (svoltasi in un luogo chiamato Dàrunnadwàh, l’analogo di un parlamento odierno) di eliminare il Profeta. Concordarono di scegliere una persona da ognuna delle tribú arabe e formare cosí una squadra che sarebbe dovuta penetrare nella casa del profeta e ucciderlo; questi empi volevano far partecipare tutte le tribú al delitto per mettere i Baní Hàshim (la tribú alla quale apparteneva il sommo Profeta) nell’impossibilità di vendicarsi. La partecipazione di un membro di questa stessa tribú all’assassinio avrebbe inoltre fatto completamente tacere gli altri.
Il progetto venne messo in atto e circa quaranta volontari nottetempo circondarono la dimora del Profeta con l’intento di attaccare la casa all’alba e assassinarlo. Tuttavia la volontà di Dio era diversa e il progetto fallí miseramente. Il Signore si rivelò infatti al Profeta, lo mise al corrente del complotto e gli ordinò di lasciare la Mecca ed emigrare a Medina. Il Profeta, informato Alí (as) dell’intrigo, gli comandò di trascorrere la notte dormendo nel suo letto e, dopo avergli fatto le ultime raccomandazioni, se n’andò.
Per la strada vide Abubàkr e lo portò con sé a Medina. Arrivarono nottetempo in una grotta del monte Saur. Dopo essersi nascosti nella grotta per tre giorni, proseguirono il loro viaggio fino a Medina ove la popolazione accolse calorosamente il sommo Profeta. Del resto, prima dell’Egira, alcuni dei notabili di Medina avevano incontrato alla Mecca il Profeta e si erano convertiti all’Islam; gli avevano inoltre promesso di appoggiarlo e difenderlo con tutte le loro forze nel caso in cui si fosse recato a Medina.
Nel frattempo gli empi, che avevano circondato la casa, la assalirono, trovando inaspettatamente Alí nel letto del Profeta; appena vennero al corrente della sua fuga si precipitarono fuori della città, ma tutte le loro ricerche furono vane.
Il sommo Profeta Muhammad (S), fuggito dalla Mecca, si stabilí a Medina, i cui abitanti abbracciarono la religione da lui apportata e lo appoggiarono devotamente. Coll’arrivo del Profeta la città di Medina assunse un aspetto islamico, prese il nome di Madínat ur-Rasúl (Città dell’Inviato) in sostituzione di Iasríb e divenne la prima città islamica della storia. In essa circa un terzo degli abitanti erano ipocriti, falsi credenti; questi simulavano l’adesione all’Islam per timore della maggioranza musulmana.
Il sole dell’Islam iniziò a risplendere nel limpido cielo di Medina e la sua divina luce arrivò dappertutto, illuminando ogni cosa. Come prima cosa, trasformò in pace e serenità lo stato di guerra che da anni esisteva tra le due grandi tribú degli Aws e dei Khazraj. Illuminò poi i cuori dei membri delle tribú della regione, i quali, gradualmente, si convertirono tutti alla religione islamica. Ebbe poi un fondamentale ruolo nel riformare la società: l’applicazione dei precetti che venivano gradualmente rivelati da Dio al Profeta, estirpava ogni giorno una delle radici della corruzione e del male, sostituendola con giustizia e timor di Dio.
Gradualmente molti dei musulmani della Mecca, oppressi e torturati dagli empi miscredenti di questa città, abbandonarono le loro dimore per emigrare a Medina, ove vennero calorosamente accolti dai loro fratelli di fede. Il musulmani emigrati presero cosí il nome di “Muhàjirun” (emigrati), mentre i benevoli musulmani della città di Medina furono chiamati “Ansàr” (soccorritori).
Di questa celeste luce non riuscirono però a giovarsi le numerose tribú giudee che vivevano a Medina, nei suoi dintorni, a Khaibar e a Fadàk. Queste tribú, infatti (come abbiamo già detto in precedenza), nonostante avessero per anni annunciato agli Arabi la venuta del profeta Muhammad (S), si rifiutarono di convertirsi all’Islam, limitandosi a siglare un patto di non aggressione con i Musulmani.
I miscredenti della Mecca erano fortemente preoccupati della rapida espansione dell’Islam e diventavano sempre piú ostili nei confronti del Profeta e dei suoi seguaci; erano invero alla ricerca di un pretesto per disperdere la giovane comunità musulmana. I seguaci dell’Islam (soprattutto quelli che erano emigrati dalla Mecca), che si erano profondamente risentiti per il malvagio comportamento di questi malvagi miscredenti, attendevano a loro volta l’ordine divino che consentisse loro di punirli e liberare dai loro soprusi i fedeli (donne, bambini e inabili vecchi) che non avevano avuto modo di emigrare a Medina.
La battaglia di Badr, nell’anno secondo dell’Egira, fu il primo conflitto tra i Musulmani e i miscredenti della Mecca. Nel corso di questo combattimento, che si svolse nell’omonima piana (situata tra la Mecca e Medina), i fedeli mal equipaggiati e in numero di circa trecento affrontarono mille infedeli armati fino ai denti. La divina grazia donò però una brillante vittoria ai Musulmani che sconfissero pesantemente i miscredenti, i quali subendo enormi perdite (sia in uomini - morti, feriti, prigionieri - che in materiale bellico), fuggirono verso la Mecca.
Si narra che gli infedeli lasciassero sul campo di battaglia settanta cadaveri (di cui circa la metà era caduta per opera d’Alí) e settanta prigionieri.
La battaglia d’Uhúd, nell’anno terzo dell’Egira, vede di nuovo opporsi i miscredenti della Mecca, guidati da Abú Sufiàn, ai Musulmani: tremila infedeli (alcune tradizioni dicono cinquemila) partirono dalla Mecca e si scontrarono con settecento musulmani, guidati dal nobile Inviato di Dio nella deserta piana d’Uhud, nei pressi di Medina. All’inizio gli uomini del Profeta prevalsero, ma un errore commesso da alcuni di loro provocò l’assedio; i Musulmani vennero quindi violentemente attaccati e subirono pesanti perdite: lo zio (paterno) del Profeta, Hamzàh, morí martire con circa settanta altri compagni dell’Inviato d’Allah, per lo piú appartenenti agli Ansàr.
Il Profeta stesso rimase ferito alla fronte, si ruppe un dente e rischiò pure di rimanere ucciso. Uno dei miscredenti dopo averlo colpito alla spalla gridò: “Ho ucciso Muhammad (S)”, seminando il panico tra i Musulmani, che fuggirono tutti all’infuori d’Alí e qualcun altro, che rimasero a difendere il Profeta. Morirono tutti a eccezione d’Alí che con incredibile coraggio e vigore si batté fino alla fine e salvò cosí la vita dell’Inviato di Dio.
Verso la fine del giorno i fuggitivi dell’armata islamica ritornarono a fianco del Profeta preparandosi nuovamente a combattere. L’esercito di Abú Sufiàn si accontentò però della parziale vittoria ottenuta e abbandonò il campo di battaglia per ritornare alla Mecca. Questi empi però, dopo aver percorso alcune parasanghe si pentirono seriamente di non aver approfittato della situazione per sconfiggere completamente i Musulmani, catturare le loro donne, i loro bambini e depredare i loro beni; si misero persino a consultarsi per riprendere le ostilità.
Nel frattempo però vennero informati che le truppe musulmane li stavano inseguendo per riprendere le ostilità; la notizia (che tra l’altro era fondata, poiché il sommo Profeta, dietro ordine di Dio, aveva mandato Alí con degli uomini a inseguire i nemici) li intimorí e in gran fretta fecero ritorno alla Mecca.
Benché i Musulmani avessero subito in questa battaglia gravi perdite, gli effetti della sconfitta furono proficui; i fedeli provarono infatti sulla loro stessa pelle le infauste conseguenze della violazione degli ordini del santo profeta Muhammad (S) e presero cosí un’importante lezione da questa spiacevole esperienza.
Le due parti si erano impegnate, alla fine della battaglia, a ritrovarsi l’anno successivo nel medesimo luogo per affrontare una nuova battaglia. Il Profeta, con un gruppo dei suoi compagni, si presentò all’appuntamento, cosa che non fecero però Abú Sufiàn e i suoi uomini.
Dopo la battaglia di Badr, i Musulmani si organizzarono in maniera piú completa e riuscirono cosí ad avanzare in tutta la penisola arabica, a eccezione della regione della Mecca e di quella di Taièf.
La battaglia di Khandaq fu il terzo conflitto tra i Musulmani e i miscredenti (i quali venivano guidati per l’ultima volta dagli infedeli della Mecca). In questo cruento combattimento, i nemici avevano mobilitato tutte le proprie forze e capacità allo scopo di annientare i Musulmani. Questo scontro è famoso nella storia col nome di battaglia di “Khandaq” (fossato) o “Guerra delle Fazioni”.
Dopo la battaglia di Uhud, i notabili della Mecca (il capo dei quali era l’empio Abú Sufiàn) avevano l’intenzione di dare il corpo di grazia al Profeta e ai suoi seguaci spegnendo cosí definitivamente la divina luce dell’Islam; istigavano perciò le tribú arabe ad aiutarli in tale impresa. Anche le tribú giudee, nonostante avessero concluso con i Musulmani un patto di non aggressione, contribuivano segretamente alla formazione di questo fronte antislamico, al quale, alla fine, si unirono, violando cosí il patto stretto con il Profeta.
Fu cosí che, nell’anno quinto dell’Egira, un possente esercito, composto dalla tribú dei Quraish e dai clan arabi e giudei, attaccò la città di Medina. Il Profeta, che ancora prima dell’attacco era a conoscenza dei piani del nemico, si consultò con i compagni sul da farsi. Dopo un lungo dibattito, si accettò la proposta di Salmàn il Persiano (uno dei piú nobili compagni del Profeta): venne scavato intorno alla città un fossato difensivo per impedire alle truppe nemiche di aggredirla.
Quando i nemici arrivarono alle porte della città non riuscirono a superare il fossato e furono cosí costretti a insediare la città. In quelle condizioni iniziarono a combattere con i Musulmani; l’assedio e la battaglia si protrasse per un certo tempo, ma alla fine, per effetto del vento, del freddo, della stanchezza degli Arabi idolatri (dovuta all’eccessivo protrarsi dell’assedio) e delle discordie nate tra i clan arabi e quelli giudei, l’assedio fallí e le truppe nemiche lasciarono Medina.
In questo conflitto Amr Ibniabdiwud, tra i piú rinomati cavalieri e celebri guerrieri d’Arabia, trovò la morte per mano del nobile e potente Alí.
Dopo la battaglia di Khandaq, i cui principali istigatori furono i Giudei, i quali collaborarono con i miscredenti arabi violando il tal modo il patto stretto con i Musulmani, il sommo Profeta, su ordine di Dio, s’impegnò a punire le tribú giudee di Medina. A tal proposito affrontò assieme ai suoi uomini diverse battaglie contro di esse, che si conclusero tutte con la vittoria dei Musulmani.
La piú importante di queste battaglie fu quella di “Kaibar”. In essa i Giudei disponevano di solide rocche, di un notevole numero di uomini, di abili guerrieri e sufficienti equipaggiamenti bellici. I Musulmani avevano invece dalla loro parte il grande Alí che, dopo aver ucciso il celebre, potente e coraggioso guerriero ebreo Marhab e aver disperso le truppe giudee, attaccò la famosa Rocca di Khaibar e, dopo averne staccato miracolosamente il pesantissimo portone, assieme alle truppe musulmane, la conquistò, sconfiggendo in tal modo i Giudei.
Con queste guerre, che terminarono nell’anno quinto dell’Egira, i Musulmani sconfissero definitivamente i Giudei dell’Hijàz.
Nell’anno sesto dell’Egira, il sommo Profeta inviò lettere a re e imperatori di diversi paesi (come lo Scià di Persia, il Negus d’Abissinia, il Re d’Egitto e l’Imperatore di Bisanzio) invitandoli ad abbracciare l’Islam. Egli concluse poi un patto di non aggressione con i miscredenti della Mecca, i quali firmandolo s’impegnarono, tra le altre cose, di non molestare e non torturare piú i Musulmani che vivevano alla Mecca e di non aiutare i nemici dell’Islam a danno dei fedeli del profeta Muhammad (S).
Questi empi però, dopo un po’ di tempo violarono il patto e fu cosí che il Profeta decise di conquistare la Mecca. Nell’anno ottavo dell’Egira attaccò, con diecimila uomini, questa città e senza alcun conflitto e spargimento di sangue la conquistò: gli idoli presenti nella Ka’bah vennero da lui infranti e l’intera popolazione si convertí all’Islam. Convocò poi i notabili della città (che per vent’anni si erano sempre dimostrati fortemente ostili nei suoi confronti ed erano stati sempre crudeli e ingiusti con lui e con suoi fedeli) e, senza fare loro il minimo sgarbo, con infinita magnanimità li perdonò tutti.
Dopo la conquista della Mecca il Profeta cominciò a ripulire i dintorni di questa città dalle ultime tracce di idolatria e miscredenza. A tal proposito affrontò diverse battaglie contro gli idolatri che ancora non si erano sottomessi, tra le quali ricordiamo quella di Hunain, che si svolse nell’omonima valle e fu una delle importanti battaglie che il Profeta affrontò in vita sua.
In essa dodicimila guerrieri musulmani affrontarono migliaia di cavalieri della tribú degli Hawàzin. All’inizio del conflitto i nemici presero un tale sopravvento che, a parte Alí (che era l’alfiere delle truppe islamiche e che combatteva davanti al Profeta) e pochissimi altri uomini, le truppe musulmane batterono in ritirata. Dopo qualche ora però, dapprima gli Ansàr poi gli altri Musulmani ripresero le loro postazioni, caricando vittoriosamente il nemico.
Al termine di questa battaglia i cinquemila prigionieri catturati dalle forze musulmane, vennero liberati per richiesta del Profeta, eccetto alcuni che spettavano {come schiavi} a quei pochi Musulmani che non se la sentivano di rinunciare alla propria quota, la quale venne acquistata dal nobile Profeta, che cosí riuscí a liberare il resto dei prigionieri.
La spedizione di Tabuk fu intrapresa nell’anno nono dell’Egira. Il Profeta inviò le sue truppe a Tabuk (alla frontiera dell’Hijàz e della Siria) perché correva voce che l’Imperatore di Bisanzio vi avesse concentrato delle truppe costituite da Arabi e Bizantini. Prima di questa spedizione le truppe islamiche avevano affrontato i Bizantini a Mutah (nei pressi di Tabuk) e in quell’occasione valorosi comandanti dell’esercito islamico come Ja’far (figlio di Abutàlib), Zaid (figlio di Hàrisah), Abdullàh (figlio di Rawàha) caddero martiri in battaglia.
Quando i trentamila uomini del Profeta raggiunsero Tabuk, il nemico aveva già lasciato il luogo. L’Inviato di Dio restò a Tabuk tre giorni e, dopo aver ripreso il controllo della regione, tornò a Medina.
Nel corso dei dieci anni del suo soggiorno a Medina, oltre alle battaglie ricordate, il Profeta condusse altri ottanta scontri armati. Partecipò in prima persona a circa un quarto di essi assumendo sempre un comportamento del tutto differente da quello adottato di solito dagli altri capi militari che si rifugiano in un luogo di assoluta sicurezza e si limitano solamente a impartire ordini ai soldati. Egli infatti partecipava attivamente alle battaglie che conduceva in prima persona e combatteva sempre sul fronte di guerra a fianco dei suoi uomini. E interessante però sapere che in tutte queste battaglie non capitò mai che uccidesse qualcuno.
Nell’anno decimo dell’Egira il sommo Profeta si recò alla Mecca ed effettuò in questa santa città l’ultimo pellegrinaggio della sua vita (questo pellegrinaggio è noto col nome di Hàjjat-ul-Widà, che significa pellegrinaggio d’addio).
Dopo aver compiuto i riti del pellegrinaggio e avere impartito alla gente alcune necessarie istruzioni relative a questo importante atto di adorazione, rientrò a Medina. Durante il viaggio di ritorno, fece fermare la carovana in una località chiamata Ghadir. Ivi, dinanzi a centoventimila pellegrini, venuti da ogni parte della penisola arabica, il Profeta sollevò la mano di Alí e lo proclamò suo successore.
Con tale atto l’Inviato di Dio designò la persona che, dopo la sua morte, avrebbe dovuto guidare la società islamica, dirigerne gli affari, custodire il sacro Corano e la tradizione del Profeta e conservare le conoscenze e le leggi religiose; il profeta Muhammad (S) ubbidí in tal modo all’ordine datogli da Dio:
“O Profeta, comunica alla gente ciò che ti è stato rivelato dal tuo Signore e {sappi che} se non lo farai, non avrai compiuto la Sua missione” (Santo Corano,5:67)
Poco tempo dopo aver fatto ritorno a Medina il sommo Profeta morí.
L’invito del profeta dell’Islam a Medina si innalzò e raggiunse tutte le case, tutti i circoli, si propagò in ogni vicolo, in ogni quartiere. La gente si convertí a schiere, gli abitanti della Mecca, di Medina e i membri delle varie tribú della zona si sottomisero tutti all’Islam. Insomma, nel corso dei dieci anni del soggiorno del Profeta a Medina, l’Islam arrivò a conquistare completamente la vasta penisola arabica.
Durante questi dieci anni, il sommo Profeta si preoccupò senza posa della sua divina missione: insegnava alla gente i princípi, le norme etiche e i precetti rivelatigli dal Signore Eccelso, esortava gli individui al bene e alla rettitudine, rispondeva alle loro domande, disputava con gli oppositori e i sapienti delle altre religioni (in special modo con i sapienti giudei) e dirigeva gli affari statali, garantendo il normale svolgimento della vita quotidiana della gente. Egli costruí a Medina la famosa Moschea del Profeta (Masjíd an-Nabí) e altre ancora furono erette successivamente. Mandò inoltre diversi missionari a predicare l’Islam nelle varie regioni d’Arabia e concluse una serie di trattati con le tribú giudee della zona di Medina e con alcune tribú arabe.
Nonostante i pesanti oneri connessi alla sua funzione di profeta e guida della comunità musulmana, il sommo Inviato riuscí in questo decennio a dedicare una considerevole parte del suo tempo alla preghiera e al culto di Dio: digiunava spesso nel corso dell’anno, nei tre mesi di ragiàb, scia’bàn e ramadan (in modo quasi consecutivo) e in altri giorni dell’anno (per un totale di un mese). Talvolta eseguiva un particolare digiuno che consisteva nel non mangiare nulla per piú giorni e notti consecutive. Dedicava inoltre ogni giorno una parte del suo tempo alle faccende di casa; talvolta poi si guadagnava da vivere lavorando per gli altri.
Dio l’Altissimo, nel Corano, rievoca le vicende di questi dieci anni dicendo:
“I miscredenti vogliono spegnere la luce di Dio, ma Egli, a loro dispetto, perfezionerà la Sua luce. Egli è Colui che ha mandato alla gente il Suo Inviato con la Retta Guida e la Religione del Vero per farla prevalere, a dispetto dei politeisti, su tutte le altre” (Santo Corano,61:8-9)
{Considerando lo straordinario processo di espansione dell'Islam, dagli inizi della missione del Profeta fino ai nostri giorni, nei quali l’Islam, con piú di un miliardo di seguaci, è la prima religione del mondo, non è difficile comprendere che ci stiamo avvicinando alla completa realizzazione della promessa divina della quale parla questo versetto coranico}.
Dice poi in un altro versetto:
“Voi Musulmani siete il miglior popolo che sia stato mai creato per gli uomini, {poiché} ordinate {loro} il ma’rúf {eseguire ciò che è bene}, vietate {loro} il munkar {eseguire ciò che è male} e credete in Dio” (Santo Corano, 3:110)
Secondo indubitabili fonti storiche il sommo Profeta è cresciuto in un ambiente tra i piú abietti, ove regnavano l’ignoranza, la corruzione e il vizio. In tale atmosfera passò la sua infanzia e la sua gioventú, senza beneficiare della minima formazione scientifica.
Benché il profeta Muhammad (S) non adorasse idoli e non commettesse atti iniqui, pure viveva in mezzo a simili persone e la sua ordinaria vita non prospettava assolutamente un futuro clamoroso. Chi se lo sarebbe infatti aspettato un simile futuro da un orfano povero, illetterato e inesperto!
Una notte, mentre si trovava assorto nella preghiera, la sua personalità subí un improvviso cambiamento: da spenta com’era divenne celeste e divina. Le idee e le convinzioni millenarie della società umana divennero per lui assurde e le leggi e le dottrine umane gli apparvero tiranniche e oppressive; collegando il passato e l’avvenire del mondo, egli individuò perfettamente quale fosse il sentiero della beatitudine umana. Da quel momento in poi non vide e non sentí che il vero e dalla sua bocca non uscirono che discorsi divini, parole di saggezza e prediche celesti.
La sua sfera interna, impegnata nel futile e vile ambiente degli affari e del commercio a risolvere i quotidiani problemi della vita, improvvisamente si elevò ed egli decise di riformare il mondo, di correggere gli uomini, di distruggere ciò che di ingiusto ed empio si era venuto a creare in seguito a migliaia di anni di traviamento e tirannia dell’uomo.
Cosí, senza curarsi delle terrificanti e imponenti forze nemiche, insorse da solo per restaurare la verità. Parlò alla gente del sapere divino e dedusse tutte le verità del creato dall’unicità del creatore dell’universo. Illustrò nel migliore dei modi le sublimi qualità morali dell’uomo, scoprendo e mettendo in luce le relazioni tra di esse esistenti. Era convinto piú di qualsiasi altra persona di ciò che diceva e metteva prima in pratica lui ciò che diceva alla gente di praticare.
Apportò leggi e precetti comprendenti una serie di atti di adorazione che esprimono, nella piú bella delle forme, la sottomissione dell’uomo di fronte alla magnificenza e alla maestà di Dio l’Unico. Apportò inoltre altre leggi di carattere civile e penale, perfettamente in accordo tra loro e saldamente fondate sull’Unicità di Dio e sul rispetto delle sublimi qualità morali dell’uomo. Il complesso delle leggi da lui apportate (tanto per quel che concerne le norme che regolano gli atti di adorazione quanto per i rimanenti precetti islamici) è di portata cosí vasta da essere in grado di valutare tutti i problemi della vita individuale e sociale dell’uomo e le diverse necessità che insorgono col passare del tempo, e caso per caso fornire la norma adatta.
Secondo il sommo Profeta queste leggi sono universali e perpetue, sono in grado di soddisfare, in ogni epoca, tutti i bisogni della vita terrena e ultraterrena di tutti gli uomini. Egli affermava che gli uomini, se vogliono conseguire la beatitudine, debbono adottare il metodo di vita indicato dalla religione islamica. A tal proposito, egli stesso ha piú volte affermato: “La religione che vi ho portato garantisce la vostra felicità in questo mondo e nell’Aldilà”.
Egli invero non ha fatto questa affermazione in modo gratuito, è bensí arrivato a tale conclusione dopo aver esaminato la creazione e previsto il futuro dell’umanità. In altre parole, solo dopo aver riconosciuto la perfetta concordanza e armonia esistente tra le leggi da lui apportate e la costituzione fisica e spirituale dell’essere umano, e aver altresí valutato, in modo generale, i futuri cambiamenti e i danni che avrebbe subito la società islamica, ha giudicato perpetui ed eterni i precetti della propria religione. Le predizioni fatte dal sommo Profeta (giunte a noi documentate da indiscutibili prove storiche) illustrano la situazione generale del mondo islamico, dopo la sua morte, per un lunghissimo periodo di tempo.
Il nobile Profeta svolse tutte le opere che abbiamo in precedenza citato nel corso di ventitré anni, di cui tredici passati a sopportare le torture e i tormenti intollerabili dei miscredenti della Mecca e dieci a combattere sia il nemico esterno sia quello interno (gli ipocriti e gli ostruzionisti), a dirigere gli affari della comunità islamica, a correggere i Musulmani nelle loro convinzioni, nel loro carattere e nella loro condotta e a risolvere migliaia di altri problemi. Il Profeta percorse questo lungo cammino grazie all’incrollabile decisione di aderire al vero e di restaurare la verità. Il suo pensiero realista non conosceva che la verità e non faceva alcun caso a ciò che era contrario a essa, sebbene fosse favorevole ai propri interessi o in accordo con le tendenze e i sentimenti comuni. Egli accettò, di tutto cuore e senza mai piú rinnegarlo, quel che egli riconobbe essere vero e rifiutò, senza mai piú accettarlo, quel che era falso.
Se riflettiamo obiettivamente e in tutta onestà su quanto è stato esposto nel paragrafo precedente non ci rimarrà alcun dubbio sul fatto che, nelle circostanze citate, la comparsa di una simile personalità non poteva essere che un miracolo, non poteva avere altra causa che la particolare grazia divina.
Dio nel Corano ricorda a piú riprese che all’inizio il Profeta era illetterato, orfano e indigente, e, considerando un miracolo la personalità che gli donò, si serve di essa per dimostrare che egli è realmente un profeta:
“Non eri forse quell’orfano al quale il Signore diede rifugio e protezione? Non eri forse quello sconosciuto che Dio rese famoso e rinomato? Non eri forse quell’indigente che Egli rese autonomo?” (Santo Corano,93:6-8)
“Prima di diventare profeta, prima della rivelazione del Corano, non sapevi né leggere né scrivere” (Santo Corano,29:48)
Se dubitate riguardo a ciò che abbiamo rivelato al nostro servo (Muhammad (S), che è cresciuto in un ambiente ove regnava l’ignoranza e la corruzione e che non ha ricevuto alcuna istruzione e formazione) portate una sura di quelle {rivelate} da una persona simile a Muhammad (S)” (Santo Corano,2:23)
L’unica base sulla quale il nobile Profeta ha istituito il fondamento della sua religione è il principio di unicità divina, che egli considerava come la fonte della beatitudine umana. Secondo questo principio Dio, l’Unico, è il creatore dell’universo, è degno di essere adorato e non ci si può prosternare se non davanti a Lui.
La condotta che deve essere perciò adottata dall’intera umanità consiste nell’accettare comunemente la parità di tutti gli uomini, far regnare la fratellanza e non sottomettersi incondizionatamente se non a Dio. A tal proposito il Signore Altissimo dice:
“{O Profeta} di’: ‘O Gente del Libro, aderite a un principio comunemente accettato da noi e da voi: non adoriamo altri che Dio, non associamogli pari e nessuno di noi prenda altri al posto di Dio come padroni e dominatori assoluti” (Santo Corano,3:64)
Il nobile profeta Muhammad (S) non mirava che a diffondere la religione monoteista, invitava la gente a aderire al principio dell’unicità divina nel modo piú educato, piú gentile, con le piú efficaci prove e con le piú chiare dimostrazioni, raccomandando ai suoi seguaci di seguire questo stesso metodo. Del resto tutto ciò gli era stato ordinato da Dio l’Altissimo:
“{O Profeta} di’: ‘Il mio metodo è questo: io invito a Dio con assoluta perspicacia e lo stesso fanno i miei seguaci’” (Santo Corano, 12:108)
Il sommo Profeta si comportava in modo fraterno e giusto con tutti. Nell’eseguire le sentenze e nel far scontare le pene non faceva mai discriminazioni ed eccezioni. Per lui non v’era differenza tra chi conosceva e chi non, tra il potente e il debole, il ricco e il povero, l’uomo e la donna, il nero e il bianco: dava a ognuno quanto secondo i precetti e le leggi della religione gli spettava. A tal proposito diceva: “Se mia figlia Fatima, che è la persona a cui voglio piú bene, rubasse, le taglierei la mano”.
Sotto il suo governo nessuno aveva il diritto di dominare e opprimere gli altri e la gente, nell’ambito della legge, aveva massima libertà (non ha invero senso parlare di libertà fuori dell’ambito della legge, non solo nell’Islam ma in qualsiasi altra legge). È a questo metodo incentrato sulla libertà e sulla giustizia sociale che fa riferimento Dio l’Altissimo, allorquando presenta il suo diletto profeta Muhammad (S):
“Io attribuirò la Mia misericordia a coloro che Mi temono, pagano la zakàt e credono nei Nostri segni, gli stessi che seguono l’Inviato, il Profeta Illetterato, che essi trovano descritto presso di loro nella Torà e nel Vangelo. Egli ordina loro di compiere ciò che essi insitamente comprendono essere bene, vietando loro ciò che in modo naturale e insito riconoscono non essere bene. Egli rende loro lecite le cose pure e gradevoli, proibendo quelle immonde; li libera da ogni norma gravosa e difficile e spezza le catene che li privano della loro libertà. Coloro che gli hanno prestato fede, lo hanno rispettato, lo hanno aiutato e hanno seguito la luce discesa su di lui (il Corano), sono i beati. O Profeta di’: ‘O gente io sono stato inviato da Dio a tutti voi! (ovvero: ‘Eseguirò tra voi la legge che Dio mi ha prescritto’)” (Santo Corano,7-156-158)
La pratica di vita del Profeta si modellava in maniera perfetta sui comandamenti che il signore gli impartiva. È per questo che egli non si concesse mai alcun privilegio e, di conseguenza, agli occhi di chi non lo conosceva sembrava una persona comune, come tutte le altre.
Faceva i lavori domestici, riceveva di persona tutte le persone che volevano incontrarlo e ascoltava le parole di chi aveva delle richieste da fargli. Non sedeva sul trono e nelle riunioni non occupava mai il posto d’onore; si spostava senza seguito e senza cerimoniale. Quando otteneva un bene si prendeva l’indispensabile per vivere e donava il resto ai poveri; talvolta poi donava tutto ai poveri e sopportava la fame. Egli viveva sempre come i poveri ed era loro compagno.
Nulla trascurava nel rivendicare i diritti della gente, ma per quel che riguardava i propri si mostrava pieno di perdono e indulgenza. Al tempo della conquista della Mecca, quando gli portarono i capi della tribú dei Quraish, nonostante tutte le ingiustizie che gli avevano fatto prima dell’Egira e tutti i tumulti che avevano provocato dopo di essa, senza dimostrare la minima severità, li perdonò tutti.
Il sommo Profeta era, per il suo carattere e le sue virtú umane, citato ad esempio sia dagli amici sia dai nemici; la sua socievolezza, la sua affabilità, la sua pazienza, la sua modestia, la sua padronanza di sé e il suo decoro erano senza eguali. È per questo che il Corano lo loda in questi termini:
“Invero tu possiedi un carattere veramente magnifico” (Santo Corano,68:4)
Ogni volta che il Profeta incontrava qualcuno, anche quando si trattava di un bambino, di una donna o di un dipendente, egli salutava per primo. Un giorno uno dei suoi compagni gli chiese il permesso di prosternarsi dinanzi a lui. Egli rispose: “Che cosa dici?! Questi sono i modi di Cesare e Cosroe! Io sono un profeta, un servo di Dio!”
Da Quando fu incaricato da Dio di divulgare l’Islam e di guidare la gente sul retto sentiero, si applicò senza posa e senza la minima distrazione, e senza il minimo errore portò a termine la propria missione.
Durante i tredici anni della sua missione vissuti prima dell’Egira alla Mecca, nonostante gli estenuanti problemi creatigli dai politeisti arabi, era costantemente occupato a adorare Dio e divulgare la Sua religione. Nel corso dei dieci anni successivi della sua missione, nonostante i crescenti problemi creatigli dai nemici della religione e nonostante l’ostruzionismo attuato dai Giudei e dalla gente ipocrita, che si fingeva musulmana, riuscí a propagare tra la gente le conoscenze e i precetti dell’Islam (a dispetto della grandissima estensione che tali conoscenze e tali precetti hanno) e affrontò ben ottanta guerre con i nemici di questa religione.
Oltre ad occuparsi dell’amministrazione e della gestione della nazione islamica (che allora consisteva nell’intera penisola arabica) si occupava, in modo diretto e personale, anche delle lamentele e delle esigenze personali della sua gente.
Per quanto riguarda il suo coraggio, basti ricordare che, con il suo sincero invito, insorse da solo contro l’intero mondo, in un’era nella quale non regnava che la prepotenza e l’ingiustizia, e sopportò tutte le torture e i tormenti dei tiranni, senza mai perdersi d’animo. In guerra non indietreggiò mai davanti al nemico.
Il sommo Profeta si manteneva sempre assai pulito e ordinato; egli a proposito della pulizia disse: “La pulizia è parte della fede”.
Oltre a curare la pulizia degli abiti e del corpo, vestiva anche in modo elegante e usciva sempre con il miglior aspetto; oltre a ciò amava molto i profumi.
Nel corso della sua vita non cambiò mai carattere e finí i suoi giorni conservando quell’umiltà e quella modestia che lo contraddistinguevano. Benché occupasse una posizione eccezionale non si concesse mai alcun privilegio che dimostrasse il suo elevato valore sociale. In vita sua non insultò mai nessuno, non parlò mai invano, non rise mai in modo rumoroso e sguainato e non si comportò mai in modo superficiale e vano.
Amava molto meditare e riflettere. Ascoltava completamente le parole degli afflitti e le proteste degli obiettori, quindi rispondeva; non interrompeva mai le parole di nessuno e non sopprimeva la libertà di pensiero. Faceva tuttavia notare alle persone i loro errori, riempiendo cosí le loro lacune.
Il sommo Profeta era assai gentile e dimostrava sempre una grande sensibilità rispetto alle altrui sofferenze. Tuttavia era rigoroso nel punire i criminali e i malfattori. Nell’eseguire le leggi divine non faceva discriminazioni tra la gente. In un furto avvenuto nella casa di uno degli Ansàr erano accusati un Giudeo e un Musulmano. Molti degli Ansàr, al fine di preservare l’onore dei Musulmani e vista l’aperta ostilità dei Giudei nei confronti della comunità islamica, vennero dal Profeta e gli chiesero insistentemente di punire l’Ebreo. Il Profeta però, siccome vide che la richiesta era illegittima, prese manifestamente le parti del Giudeo e condannò il Musulmano.
Durante la battaglia di Badr, mentre ordinava le schiere del proprio esercito, si accorse di un soldato che si era disposto un po’ piú avanti degli altri. Con il bastone che aveva in mano fece allora pressione sul ventre del soldato al fine di ordinare la schiera; quest’ultimo gli disse: “O Inviato di Dio, giuro su Dio che ho sentito male al ventre e devo dunque vendicarmi”. Il Profeta gli diede allora il bastone e, denudandosi il ventre, disse: “Rendimi dunque la pariglia”. Il soldato però, invece di colpire, si precipitò verso il Profeta e ne baciò il ventre. Disse quindi: “So che sarò ucciso oggi! Volevo solo prendere contatto con il tuo sacro corpo”. Poco dopo quell’uomo caricò il nemico e si batté finché non cadde martire.
Il sommo profeta Muhammad (S) proteggeva sempre i deboli e gli oppressi; raccomandava ai suoi compagni di comunicargli, senza nulla trascurare, le necessità dei bisognosi e le lamentele dei deboli. Si racconta che le ultime parole della sua vita le proferí per fare una raccomandazione riguardo agli schiavi e alle donne. Su di lui e sulla sua venerata famiglia sia la benedizione di Dio.
L’umanità, al pari delle altre parti del creato, è destinata a mutare, ad alterarsi. Analogamente, la netta differenza che esistente nella costituzione di ogni singolo essere umano crea negli uomini disposizioni diverse, per effetto delle quali le persone differiscono tra loro nel grado di comprensione e nella capacità di memorizzare delle idee e dei concetti.
Perciò, se le convinzioni, le tradizioni e le norme che governano una comunità non sono ben radicate, se non sono protette da fedeli e affidabili guardiani, cadono rapidamente in balia di alterazioni e falsificazioni e si annientano. L’esperienza lo dimostra chiaramente.
Per prevenire questo pericolo il sommo Profeta presentò un saldo e sicuro documento e dei guardiani competenti per la sua universale e perpetua religione: raccomandò alla gente il Libro di Dio e la nobile Gente della sua casa.
Tutte le scuole (sia quelle sunnite sia quelle shi°ite) hanno, infatti, tramandato in modo reiterato {cioè in modo tale da non lasciare il minimo dubbio sull’autenticità della tradizione} che il sommo Profeta ha piú volte detto: “Me ne vado e vi affido due preziose cose: il Libro di Dio (il Corano) e la Gente della mia casa (Al’itrah). Queste due cose non si divideranno mai tra loro e finché vi atterrete a esse non vi travierete”.
Il nobile Corano è la fonte delle verità e delle conoscenze islamiche, è il libro ispirato al profeta dell’Islam ed è la prova della sua funzione profetica.
Il generoso Corano è la parola di Dio l’Altissimo, è un insieme di sublimi insegnamenti rivelati al sommo Profeta dall’Onnipotente, è il mezzo con il quale è stato mostrato all’uomo il sentiero che conduce alla beatitudine.
Il Corano rivela all’essere umano una serie di fondamenti teorici e pratici mediante la cui applicazione egli può raggiungere la felicità, in questo mondo e nell’Aldilà.
Questo celeste libro è stato gradualmente rivelato nel corso dei ventitré anni della missione del sommo Profeta e ha risposto a tutte le necessità della società umana. È un libro che nelle sue dichiarazioni non mira ad altro che a guidare la gente verso la beatitudine. Esso insegna, con chiare ed efficaci espressioni, ad acquisire tre cose che costituiscono le basi della beatitudine dell’individuo e della società umana: un credo giusto, un carattere integro e una buona condotta:
“Ti abbiamo rivelato questo libro come chiarimento d’ogni cosa” (Santo Corano,16:89)
Il Corano esprime in breve il sapere islamico e indirizza la gente verso il Profeta per una descrizione dettagliata dei princípi e delle norme di questa sacra religione, specialmente per le spiegazioni intorno alle varie questioni di diritto islamico:
“Ti abbiamo rivelato il Corano affinché tu chiarisca alla gente ciò che è stato loro inviato da Dio” (Santo Corano,16:44)
“Ti abbiamo rivelato questo libro affinché tu risolva le controversie della gente e chiarisca loro la verità” (Santo Corano,16:64)
Lungi dall’invitare gli uomini a una cieca accettazione della religione, il Corano, rivolgendosi a essi con la loro usuale lingua e innata logica, ricorda loro una serie di conoscenze che essi comprendono insitamente e che non possono assolutamente negare. Dice Dio l’Altissimo:
“Il Corano è il verbo che distingue il vero dal falso e non è stato pronunciato invano, sventatamente” (Santo Corano,86:13-14)
I concetti esposti dal Corano, nel loro dominio di validità, si applicano ad ogni uomo e in ogni tempo. La parola coranica si distingue dai soliti discorsi della gente, nei quali di un problema vengono considerati quegli aspetti che l’intelletto e il pensiero umano è in grado di comprendere e trascurati invece gli altri. Nel verbo divino sono stati invero considerati tutti gli aspetti (sia quelli manifesti sia quelli nascosti) delle questioni trattate, esso tiene conto di tutti i vantaggi e gli svantaggi delle cose.
È perciò necessario che ogni Musulmano assuma un atteggiamento realista, ricordi costantemente il versetto poc’anzi citato, consideri la parola di Dio come vivente ed eterna, non si limiti a ciò che gli altri hanno compreso e detto riguardo ad essa e non chiuda dinanzi a sé le porte del libero pensare (che è l’unico esclusivo capitale umano e il Corano esorta insistentemente l’uomo a giovarsi di esso). Infatti il Libro di Dio è per sempre e per tutti la parola che distingue il vero dal falso e un simile libro non si limiterà mai alla comprensione di un determinato gruppo di persone. Dio l’Altissimo dice:
“O Musulmani, non siate come quelli che ricevettero il Libro in precedenza e che per effetto del periodo trascorso i loro cuori si indurirono ed essi non accettarono le verità divine” (Santo Corano,57:16)
Il nobile Corano chiede agli uomini di accettare la verità facendo appello alla loro intima natura. In altre parole, essi devono in primo luogo prepararsi ad accogliere incondizionatamente la verità e ad accettare, senza prestare ascolto alle tentazioni di Satana e al richiamo delle passioni, ciò che hanno riconosciuto essere giusto, ciò che è utile e proficuo per la loro vita terrena e ultraterrena; dopodiché devono esaminare il sapere islamico e se vedono che questo è conforme alla verità, se vedono che il loro reale vantaggio, la loro effettiva tranquillità sta nell’accettarlo, nell’applicarlo, lo accettino incondizionatamente.
È evidente che una volta accettato, il metodo di vita dell’uomo e lo statuto che sarà attuato nella società umana consisteranno in una serie di norme e leggi desiderate e ricercate istintivamente e naturalmente dall’essere umano. Sarà insomma un metodo uniforme, tutti i suoi elementi e tutti i suoi fondamenti saranno in perfetto accordo con la particolare conformazione dell’uomo. In esso non vi sarà alcuna contraddizione, alcuna incoerenza; non sarà un metodo che in un punto trae origine dalla spiritualità e in un altro dalla materialità, in un caso è conforme al sano intelletto e in un altro va dietro alle passioni:
“Il Corano guida la gente alla verità, a una via, un metodo uniforme, assolutamente privo di contraddizioni e incoerenze” (Santo Corano,46:30)
“Questo Corano guida la gente verso la religione piú potente e giusta di qualsiasi altra religione”.(Santo Corano,17:9)
In un altro versetto il Signore considera l’assoluta conformità esistente tra l’Islam e la natura umana come la ragione della sua potenza e della sua giustezza. È infatti evidente che il metodo che soddisfa i naturali desideri e le reali necessità dell’uomo, realizzerà quest’ultimo e lo renderà beato come meglio non è possibile:
“Aderisci saldamente alla religione che è perfettamente conforme alla particolare natura dell’uomo, la quale è immutabile e inalterabile. Questa è la religione che è in grado di amministrare e dirigere la società umana e di condurla alla beatitudine” (Santo Corano,30:30)
“Questo è un libro chi ti abbiamo rivelato perché tu conduca gli uomini dalle tenebre alla luce”.(Santo Corano,14:1)
Il nobile Corano invita la gente a seguire un chiaro sentiero che conduce agevolmente l’uomo all’ambita meta. Questa via dà una corretta risposta ai desideri innati dell’uomo (che non sono altro che i suoi reali bisogni) e sarà in accordo la sana ragione umana. Questa via, questo sentiero non è altro che l’Islam, religione conforme a quanto di innato, di insito esiste nell’uomo.
Di contro, il metodo basato sulle passioni e volto fondamentalmente a soddisfare gli istinti animali delle persone influenti della società, quello basato su una pedissequa imitazione degli avi e degli antenati e il metodo che una nazione sottosviluppata e impotente prende (senza esaminarlo minImamente né confrontarlo con la logica dettata dalla sana ragione) dalle nazioni capaci e potenti, accettando acriticamente tutto ciò che trova in questi paesi e rendendosi cosí simili a essi, si, tutti questi metodi fanno sprofondare l’uomo nelle tenebre e non garantiscono assolutamente a chi li applica il raggiungimento della meta prefissata. A tal proposito Dio l’Altissimo dice:
“Colui che era {spiritualmente} morto e che Noi (per mezzo della religione) abbiamo resuscitato e a cui abbiamo dato una luce con la quale percorre tra la gente il sentiero della vita è forse simile a chi brancola nelle tenebre senza poterne uscire?” (Santo Corano,6:122)
Quanto abbiamo finora detto può far bene comprendere quanto sia importante questo sacro libro per l’Islam e i Musulmani. Esso inoltre, dal tempo in cui è stato rivelato fino a oggi (quattordici secoli), ha costantemente goduto, sotto diversi punti di vista, di una grande stima e riverenza nelle diverse società umane e ha sempre attirato verso di sé l’attenzione degli uomini.
Il Corano è il garante dell’Islam, religione universale e perpetua e in esso sono stati incantevolmente esposti gli aspetti fondamentali del sublime sapere islamico. Sotto questo punto di vista quindi il suo valore è pari a quello della stessa religione islamica.
Per concludere ricordiamo che questo sacro libro oltre a essere la parola di Dio è anche l’eterno miracolo del sommo profeta Muhammad (S).
L’arabo è una lingua ricca e potente, capace d’esprimere nel piú chiaro e piú preciso dei modi gl’intimi propositi umani e in questo ambito nessuna lingua può reggere il confronto con quella araba.
La storia testimonia che gli Arabi dell’era pagana (preislamica), che erano per lo piú nomadi, lontani dalla civiltà e privi di molte delle comodità della vita, in materia di eloquenza e capacità espressive occupavano una posizione di spicco. Non è infatti possibile trovare, lungo il corso della storia, un solo avversario capace di rivaleggiare con essi in questo campo.
Nel mondo letterario arabo, un eloquio forbito aveva il piú alto dei valori, discorsi pronunciati con elegante stile letterario godevano di una grande stima. Con lo stesso rispetto con il quale installavano i loro idoli e i loro dèi all’interno della Ka’bah, affiggevano sui muri di questo sacro edificio le incantevoli e piacevoli poesie dei loro piú insigni poeti. Senza commettere il minimo errore usavano una lingua vasta e piena di simboli e precise regole com’è quella araba; nell’abbellire e decorare il loro eloquio erano poi straordinari.
Quando i primi versetti del Corano furono rivelati al sommo Profeta e letti alla gente, grande fu l’agitazione che si creò tra gli Arabi e i loro letterati. Lo stile incantevole, piacevolissimo e profondo del Corano aveva completamente conquistato i cuori della gente e aveva fatto innamorare di sé i ricercatori di spiritualità, tanto che aveva fatto dimenticare loro tutte le proprie forbite ed eleganti composizioni; arrivarono addirittura a tirare via dai muri della Ka’bah le poesie dei loro grandi maestri (chiamate mu’allaqàt).
Queste divine parole, con la loro infinita bellezza e il loro immenso fascino incantavano ogni cuore e con il loro piacevole ritmo cadenzato facevano azzittire i piú facondi oratori. Tutto ciò era però assai difficile da accettare per le tribú politeiste e idolatre, poiché il Corano, con la sua efficace esposizione e la salda logica spiegava e provava la religione monoteista, biasimando fortemente il politeismo e l’idolatria, spregiando gli idoli che la gente considerava delle divinità, ai quali ricorreva nei momenti di bisogno, in onore dei quali faceva sacrifici e che adorava al posto di Dio. Il Corano presentava tali idoli come delle inerti e inutili statue di pietra e di legno.
Questo sacro libro invitava gli Arabi, che erano selvaggi, superbi, presuntuosi e che si procuravano da vivere attraverso l’assassinio e il brigantaggio, a seguire la religione incentrata sull’adorazione del Dio Unico, a essere giusti e umani.
Erano questi i motivi che spinsero gli Arabi idolatri a battersi con ogni mezzo a loro disposizione per spegnere questa fulgente luce della guida sul retto sentiero (senza però mai giungere al loro scopo).
Il Profeta, agli inizi della sua nobile missione profetica, fu portato da Walíd, che era un maestro di eloquenza e un celebre retore arabo. Il nobile Profeta gli recitò i primi versetti della sura “Ha Mim Sajdah” e il superbo e presuntuoso oratore li ascoltò attentamente; quando l’Inviato di Dio arrivò al seguente versetto:
“Se quindi si rifiutano {di prestare fede}, di’ loro: ‘Vi metto in guardia da un castigo simile a quello che hanno ricevuto le tribú di Ad e Samúd”(Santo Corano,41:13)
Walíd rimase sconvolto e iniziò a tremare, quindi perse i sensi. L’incidente mise termine all’incontro e i presenti se ne andarono.
In seguito, un gruppo di persone vennero da Walíd e si lamentarono con lui affermando che il suo comportamento li aveva umiliati e disonorati dinanzi a Muhammad (S). Walíd rispose: “Vi giuro che siete in errore! Voi sapete bene che io non ho paura di nessuno e che non miro al benché minimo utile e privilegio: sono un letterato, un retore! Le parole che ho sentito da Muhammad (S) non assomigliano a quelle della gente comune; esse sono attraenti e seducenti, non si possono qualificare né come poesia né come prosa. Esse sono profonde e piene di significato. Se proprio volete il mio giudizio, sappiate che al momento non ho nulla da dire; lasciatemi tre giorni di tempo per riflettere”. Dopo tre giorni ritornarono ed egli disse: “Le parole di Muhammad (S) sono opera di magia e stregoneria: esse ingannano e seducono i cuori”.
In seguito a questo giudizio, i politeisti considerarono il Corano come atto di stregoneria, di magia. Evitavano di ascoltarlo e impedivano alla gente di prestare orecchio alla recitazione dei suoi versetti. Talvolta, quando il sommo Profeta recitava i sacri versetti di questo divino libro nella Moschea Sacra (Masjid ul-Haràm) gridavano e battevano le mani affinché la gente non sentisse la sua voce. Tuttavia, l’avvincente stile del Corano li aveva attratti cosí tanto che spesso, approfittando del buio della notte, si riunivano dietro il muro della casa del Profeta e ascoltavano la recitazione di questo sacro libro. Mormoravano allora l’un l’altro: “Questa non può essere considerata la parola di una creatura”.
A tal riguardo Dio l’Eccelso afferma:
“Noi sappiamo meglio con quale intenzione i miscredenti si mettono ad ascoltare il Corano quando tu lo reciti; Noi meglio sappiamo cosa si bisbigliano tra di loro nell’orecchio quando gli iniqui dicono ai seguaci del Profeta: ‘Non seguite che un uomo stregato’” (Santo Corano,17:47)
Quando il sommo Profeta recitava accanto alla Ka’bah il Corano e invitava la gente all’Islam, gli oratori arabi di passaggio si piegavano per non visti, per non essere riconosciuti:
“Essi si piegavano per nascondersi dal sommo Profeta” (Santo Corano,11:5)
I miscredenti e i politeisti non soltanto consideravano il nobile Corano come un’opera di magia, ma vedevano l’intera missione del Profeta come un’opera di stregoneria. Ogniqualvolta l’Inviato di Dio invitava le persone a seguire il sentiero di Dio, trasmetteva loro determinate verità oppure le consigliava al bene, essi affermavano che egli le stava stregando. Egli non faceva altro che esporre dei concetti la cui validità poteva essere insitamente compresa dall’intelletto umano e mostrare il retto sentiero nel quale si poteva concretamente vedere la beatitudine umana.
Tutto ciò non può essere chiamato stregoneria. È forse stregoneria dire agli uomini di non adorare oggetti di pietra e di legno da loro stessi intagliati? È stregoneria dire di non sacrificare i propri figli per degli inerti e insignificanti oggetti e di non essere superstiziosi? È stregoneria una morale basata su virtú quali la sincerità, l’onestà, la benevolenza, la filantropia, il pacifismo, l’equità e l’essere rispettosi verso i diritti umani?
Dio l’Altissimo, nel Corano, dice:
“Quando dici ai miscredenti: ‘Sarete risuscitati dopo la morte’ essi dicono: ‘Non si tratta che di evidente opera di stregoneria’” (Santo Corano,11:7)
I miscredenti e i politeisti che credevano fermamente nell’idolatria, non erano assolutamente disposti ad accettare l’invito dell’Islam e a sottomettersi alla verità. Di conseguenza diffamavano il sommo Profeta accusandolo di essere un bugiardo e affermando che il Corano non era la parola di Dio ma un suo personale componimento.
Per confutare questa accusa, il nobile Corano sfidò gli impareggiabili letterati arabi dell’epoca a produrre versetti simili ai suoi e dimostrare cosí la falsità della religione islamica, se erano sinceri nell’accusare il Profeta:
“...oppure dicono: ‘Il Corano se lo è inventato lui’?! Ma {ciò non è vero; in verità, a causa della loro empietà e della loro invidia} essi non credono. Portino dunque anche loro un testo simile a esso se sono sinceri” (Santo Corano,52:33-34)
In un altro versetto leggiamo poi:
“Dicono forse: ‘Il Corano è un testo menzognero che è ingiustamente attribuito a Dio {in realtà è la parola di Muhammad (S), non quella di Dio}’?! Di’: ‘Se siete sinceri portate anche voi una sura simile a quelle del Corano e chiedete aiuto ai vostri dèi {gli idoli} e a chi potete all’infuori di Dio’” (Santo Corano,10:38)
I miscredenti e i politeisti arabi, che erano maestri di eloquenza, con tutta quella superbia e presunzione che avevano nel dimostrare le loro capacità oratorie, non raccolsero la sfida lanciata dal Corano e si tirarono indietro. Essi furono cosí costretti a trasformare la disputa letteraria in conflitto armato. Da ciò è possibile dedurre che per questi empi era piú facile morire che perdere la faccia in una contesa letteraria.
I letterati arabi, sia quelli che vissero all’epoca della rivelazione che quelli che vennero dopo, furono incapaci di sconfiggere il Corano; dopo un lungo braccio di ferro furono infatti costretti a indietreggiare e arrendersi.
L’uomo tende insitamente a rivaleggiare in modo costante con gli altri al fine di creare capolavori e opere d’arte simili o migliori di quelle create dagli altri; ciò avviene anche nei casi in cui tali opere non hanno la benché minima influenza diretta sulla società, come nel caso delle gare di pugilato o di acrobazia. Da ciò si deduce che esistono sempre delle persone che si danno costantemente da fare per sconfiggere il Corano e che non perdono un istante di tempo per applicare qualsiasi metodo da loro trovato per vincere questo celeste libro.
In ogni caso i miscredenti arabi non sono stati capaci di vincere il Corano e non sono riusciti a presentarlo come opera di stregoneria, perché la stregoneria è un atto che consiste nel far apparire il vero come falso e viceversa. Ora, il fatto che il Corano riesce, con il suo elegante stile e il suo avvincente ritmo cadenzato, a conquistare i cuori degli uomini è dovuto alle sue straordinarie doti e non al fatto che esso strega e inganna la gente.
Quando poi invita l’uomo a raggiungere una serie di importanti obiettivi, gli ricorda dei princípi che già comprende insitamente essere giusti, esorta la gente ad assumere una serie di virtú (quali l’essere equi, filantropi, riconoscenti e benevoli) che il sano intelletto non può non approvare e non lodare, lo fa solo al fine di esporre la verità.
La divina e miracolosa natura del Corano non ha permesso ai suoi nemici di dire: “Noi ammettiamo che il Corano è l’apice dell’espressione letteraria umana e che la sua eleganza, la sua facondia e il suo fascino sono impareggiabili; tutto ciò però non è sufficiente a dimostrare che esso ha natura divina. Per ogni virtú nella quale vi sia possibilità di progresso, la storia ricorda una persona che ha posseduto tale virtú in misura maggiore rispetto agli altri; lo stesso dicasi per le arti. Ora, pur ammettendo che il Profeta occupi tra gli Arabi il primo posto nel discorrere con un particolare ritmo cadenzato, tale eloquio avrebbe in ogni caso natura umana e, in quanto tale, sarebbe raggiungibile”. Nessuno dei letterati dell’epoca del Profeta è riuscito a fare o dimostrare una tale affermazione.
In effetti, una qualsiasi virtú o arte che grazie a un persona particolarmente dotata ha raggiunto il suo massimo grado di progresso, ha in ogni caso preso origine dalle capacità e dalle attitudini umane; perciò anche gli altri sono in grado di percorrere il sentiero tracciato da questa persona e, sforzandosi, possono compiere o produrre opere simili alle sue e sotto certi aspetti anche superiori, pur non riuscendo a eguagliarlo sotto tutti gli aspetti. Egli è stato un pioniere ed ha aperto la strada agli altri, ai suoi futuri rivali.
Ad esempio, ammettendo che nessuno possa superare in generosità il celebre Hàtam Tai, non si può tuttavia escludere che qualcuno possa compiere opere simili alle sue. Allo stesso modo, ammettendo che nessuno possa superare la calligrafia di Mir o la pittura di Màni, non si può però escludere che qualcuno, impegnandosi, possa scrivere perlomeno una parola alla maniera del primo oppure dipingere un quadro con lo stesso stile del secondo.
Se il nobile Corano fosse stato la piú faconda espressione letteraria dell’uomo (e non il verbo divino), in base alla sopraccitata regola generale, altre persone, in particolare i rinomati letterati del mondo, avrebbero potuto, sforzandosi e lavorando seriamente sullo stile coranico, creare un libro simile ad esso o perlomeno una sura simile alle sue. Ora, il Corano sfida i suoi nemici a produrre un verbo simile al suo, non uno migliore:
“Portino dunque un verbo simile a esso se sono sinceri” (Santo Corano, 52:34)
Portate una sura simile alle sue (Santo Corano,10:38)
“Se siete sinceri, portate anche voi dieci sure inventate simili alle sue e chiamate in vostro aiuto chiunque potete all’infuori di Dio” (Santo Corano,11:13)
“Di’: ‘Se gli uomini e i jinn si associassero al fine di creare un libro simile al Corano non riuscirebbero a crearlo, neanche se si aiutassero a vicenda’”(Santo Corano, 17:89)
Per concludere bisogna ricordare che il Corano non prevale sugli altri solamente per la sua facondia e il suo straordinario ritmo cadenzato, ma anche per altre cose (quali il potere di rispondere concretamente a tutte le necessità dell’uomo, la capacità di comunicare notizie riguardanti l’occulto e di esprimere determinate verità) che appaiono in esso.
Il Corano sfida tutti gli uomini e proclama loro che non riusciranno mai a creare un libro simile a esso.
Nel lessico, sia in quello classico che in quello familiare, col termine “Ahl ul-Bayt di un uomo” si indicano le persone che vivono nella sua casa, quali la moglie, i figli e i servitori. Talvolta il significato di questa parola viene esteso in modo da indicare i parenti stretti quali il padre, la madre, le sorelle, i fratelli, i nipoti, le nipoti, gli zii, le zie, i cugini e le cugine.
Tuttavia l’espressione “Ahl ul-Bayt” che troviamo nel Corano e nelle tradizioni del Profeta e degli Imam assume un significato diverso dai due sopraccitati. Secondo tradizioni tramandate (sia dalle fonti sunnite che da quelle shi°ite) in modo tale da non lasciare la minima ombra di dubbio sulla loro autenticità, il termine “Ahl ul-Bayt” indica l’insieme delle seguenti quattordici persone: il profeta Muhammad (S), Alí, Fatima, Hasàn, Husàin e i nove infallibili Imam discendenti da quest’ultimo.
Perciò il resto delle persone che vivevano nella casa del sommo Profeta e cosí pure i suoi parenti, nonostante vengano correntemente considerati facenti parte dell’Ahl ul-Bayt, in base all’accezione poc’anzi citata non facevano parte di essa. In tal modo, perfino Khadíjah, che era la prediletta moglie del Profeta e la madre di Fatima, e Ibrahím, che aveva il grande onore di essere il figlio del Profeta, non devono essere considerati come facenti parte dell’Ahl ul-Bayt.
Con in termine “Ahl ul-Bayt del Profeta” si intende poi solitamente le seguenti tredici persone: Alí, Fatima, Hasan, Husain e i nove infallibili Imam da lui discendenti.
I membri dell’Ahl ul-Bayt del Profeta si distinguono per le loro numerose virtú, i loro eccezionali meriti e gli irraggiungibili e impareggiabili gradi spirituali da loro posseduti, i piú importanti dei quali sono:
il grado di infallibilità e purezza, secondo quanto dice il seguente versetto coranico:
“O membri dell’Ahl ul-Bayt del Profeta, in verità Dio vuole allontanare da voi ogni impurità e purificarvi completamente” (Santo Corano, 33:33)
È bene sapere che chi possiede tale grado spirituale non commette alcun peccato.
Secondo la nota tradizione dello Thaqalayn, citata in precedenza, l’Ahl ul-Bayt del Profeta e il Corano staranno sempre insieme, non si separeranno mai tra di loro; di conseguenza i suoi componenti non sbaglieranno mai nell’interpretare i versetti del sacro Corano e nel comprendere i sublimi propositi dell’illuminante religione islamica.
Il possedimento di questi due gradi spirituali da parte dei componenti dell’Ahl ul-Bayt del Profeta implica necessariamente che tutti i loro detti e tutte le loro azioni siano, al pari dei detti e delle azioni dello stesso Profeta, legge e argomento; questo è uno dei principi della dottrina shi°ita.
Riguardo alle virtú del nobile Alí e dei restanti componenti dell’Ahl ul-Bayt, le fonti sunnite e cosí pure quelle shi°ite hanno tramandato molte tradizioni risalenti al sommo Profeta. Ci limiteremo a citarne tre.
Nel sesto anno dell’Egira, i Cristiani della città di Najràn scelsero alcuni dei loro notabili e sapienti e li inviarono a Medina.
Questi delegati affrontarono dapprima una disputa con il sommo Profeta, dalla quale uscirono vinti e sopraffatti; fu cosí rivelato il Versetto della Mubàhalah:
“Dopo i chiari argomenti che ti sono pervenuti, se qualcuno disputa ancora con te riguardo a lui {Gesú}, di’: ‘Venite, chiamiamo i nostri figli e i vostri figli, le nostre donne e le vostre donne, noi stessi e voi stessi; preghiamo e supplichiamo quindi Dio e malediciamo i mendaci” (Santo Corano, 3:61)
Obbedendo all’ordine contenuto in questo versetto, il sommo Profeta propose agli emissari di Najràn di chiamare le loro donne e i loro figli e fare mubàhalah, di maledire cioè i mendaci affinché Dio li punisca. Essi accettarono la proposta e si diedero appuntamento il giorno successivo. Un folto gruppo di Musulmani e cosí pure la delegazione venuta da Najràn si presentarono all’appuntamento e si misero in attesa dell’arrivo del Profeta per vedere come e con chi si sarebbe presentato per affrontare la mubàhalah. Gli astanti videro a un certo punto giungere il profeta Muhammad (S) che teneva in braccio Husain e Hasan per la mano, seguito da sua figlia Fatima, seguita a sua volta da Alí. Indi il Profeta si volse ai suoi nobili accompagnatori e ordinò loro di dire “àmin” nel momento in cui avesse invocato il Signore {per maledire i mendaci durante la mubahalah}.
Lo spettacolo di questo piccolo gruppo risplendente di luce, di giustizia, di verità, di assoluto affidamento a Dio Eccelso, sconvolse i componenti della delegazione giunta da Najràn; il loro capo disse allora: “Giuro su Dio che vedo dei volti che se si rivolgono a Dio tutti i Cristiani della terra saranno sterminati”. Cosicché vennero dal sommo Profeta per chiedergli di esimerli dalla mubàhalah. Il Profeta disse allora: “Diventate quindi Musulmani” ed essi risposero: “Noi non siamo in grado di fare guerra ai Musulmani, c’impegnamo però a pagare annualmente una tassa e vivere cosí sotto la protezione del governo islamico”. Cosí ebbe termine la controversia.
Dal fatto che solo Alí, Fatima, Hasan e Husain, la pace sia su di loro, accompagnarono il Profeta per eseguire la mubàhalah con i Cristiani, si deduce che il sopraccitato versetto con le espressioni “i nostri figli”, “le nostre donne”, “noi stessi” intende solamente il sommo Profeta, Alí, Fatima, Hasan e Husain. In altre parole, quando il profeta Muhammad (S), rivolgendosi ai delegati di Najràn, diceva “noi stessi” intendeva sé stesso e Alí, con l’espressione “le nostre donne” intendeva la pura Fatima e con “i nostri figli” voleva dire Hasan e Husain.
Da ciò è possibile dedurre che Alí è come se fosse lo stesso Profeta e che l’Ahl ul-Bayt di quest’ultimo consta delle quattro sopraccitate persone; se altre persone all’infuori di queste fossero appartenute a essa, egli le avrebbe portate con sé a sostenere la mubàhalah.
Da quanto si è detto si può altresí dedurre che queste quattro persone sono infallibili; Dio l’Altissimo, nel seguente versetto, attesta infatti l’infallibilità e la castità dell’Ahl ul-Bayt del Profeta:
“O membri dell’Ahl ul-Bayt del Profeta, in verità Dio vuole allontanare da voi ogni impurità e purificarvi completamente” (Santo Corano,33:33)
Secondo una tradizione, tramandata sia dalle fonti sunnite che da quelle shi°ite, il profeta dell’Islam ha detto: “La mia Ahl ul-Bayt è come l’Arca di Noè che chiunque vi salí si salvò e chiunque l’abbandonò annegò”.
In un’altra tradizione narrata (sia da fonti sunnite che da quelle shi°ite) in modo tale da non lasciare alcun dubbio sulla sua autenticità, il sommo Profeta dice: “Lascio in ricordo tra voi due preziose cose che non si separeranno mai tra loro: il Libro di Dio e la mia Ahl ul-Bayt. Fintanto che vi atterrete a esse non vi travierete”.
Un’organizzazione statale che viene istituita in un paese e che ha il compito di amministrare gli affari pubblici della gente, non funziona in modo automatico. Finché un gruppo di persone esperte e competenti non s’impegnano a mantenere e dirigere quest’organo statale, esso non potrà funzionare e servire la gente.
Lo stesso avviene per tutti gli altri enti che vengono creati nelle diverse società umane, come gli istituti culturali e i vari enti economici esistenti. Tali organismi non possono assolutamente fare a meno del supporto di dirigenti onesti e competenti; senza di essi sono destinati in breve tempo a fallire e chiudere. Questa è un’evidente verità che è attestata da numerose concrete prove.
Senza dubbio tale discorso vale anche per l’istituzione religiosa islamica, che può essere considerata la piú vasta mai esistita al mondo. Essa per continuare a esistere e a funzionare ha bisogno di chi la protegga e la diriga; ha continuamente bisogno di persone competenti che con assoluta cura e negligenza trasmettano alla gente il suo sapere e le sue leggi ed eseguano nella società islamica i suoi precisi precetti.
La gestione degli affari materiali e spirituali della società islamica viene da noi chiamata “Imamàto” e la persona incaricata di questa gestione e guida viene invece detta “Imam”.
Secondo gli Shi°iti è indispensabile che dopo la morte del sommo Profeta venga designato da parte di Dio l’Altissimo un Imam per la gente, che conservi e custodisca il sapere religioso e i precetti dell’Islam e guidi gli uomini sul retto sentiero.
Chiunque affronti da vero ricercatore lo studio del sapere islamico e sia dotato di giustizia nel giudicare, non avrà alcuna difficoltà a riconoscere l’Imamato come uno degli incontestabili princípi della sacra religione islamica. Questo concetto è stato espressamente menzionato da Dio l’Altissimo nei versetti coranici.
Come abbiamo dimostrato nel capitolo dedicato alla profezia, l’attenzione che il Signore dell’Universo ha nei confronti del creato, implica che Egli guidi ogni Sua creatura verso il raggiungimento della propria perfezione.
Cosí un albero fruttifero viene guidato a crescere, a svilupparsi, a gemmare e a produrre frutti. La sua evoluzione differisce da quella di un uccello che persegue il suo fine specifico.
È la stessa cosa per ogni altra creatura: essa trova una via tracciata a sua misura e viene guidata su di essa fino a che non raggiunge la propria meta. È evidente che l’essere umano, in quanto creatura di Dio, non sfugge a questa legge.
Abbiamo inoltre spiegato che siccome la beatitudine dell’uomo viene ottenuta attraverso l’arbitrio e la volontà, la guida destinata da Dio all’essere umano dovrà realizzarsi attraverso l’invio delle religioni per mezzo di profeti incaricati di diffonderle e predicarle, affinché l’uomo non abbia piú alcun pretesto per giustificare, dinanzi a Dio, il suo errato comportamento. A tal proposito il Corano dice:
“{Abbiamo mandato} degli inviati, nunzi di buone novelle e ammonitori, affinché la gente, dopo di essi, non avesse piú alcuna scusa di fronte a Dio” (Santo Corano, 4: 165.)
Questo versetto ci fa comprendere che lo stesso motivo che rende necessario l’invio dei profeti e l’invito alla religione, rende necessario che il sommo Profeta, che, mercé la sua infallibilità, custodiva l’Islam e guidava la gente sul retto sentiero, dopo la sua morte venga sostituito da Dio con una persona che, all’infuori del poter ricevere l’ispirazione divina e del possedere una missione profetica, possieda il suo stesso grado di perfezione, affinché possa come lui custodire il sapere e i precetti della religione islamica e guidare gli uomini sul retto sentiero.
Senza tale guida il programma di guida universale verrebbe scombinato e l’uomo avrebbe delle scusanti per giustificare le sue colpe.
Nello stesso modo in cui l’intelletto, a causa della sua fallibilità, non è in grado di fare in modo che la gente possa fare a meno del profeta, la presenza dei sapienti religiosi nel mondo islamico e le loro attività di divulgazione della religione non ha il potere di far sí che la gente possa fare a meno dell’Imam.
Da ciò che è stato detto in precedenza, risulta infatti chiaro che non si discute sul fatto che la gente segua o no la religione, bensí il discorso è che la religione di Dio giunga alla gente intatta, come Dio l’ha rivelata, senza subire la minima alterazione.
È evidente che i sapienti Musulmani, per quanto timorati di Dio e probi siano, non sono immuni dall’errore e dal peccato; non si può quindi escludere che essi, anche se in modo involontario, distruggano oppure alterino alcune delle conoscenze e delle leggi islamiche. Ciò che meglio dimostra questo concetto sono le diverse sette, le varie scuole e le numerose divergenze sorte in seno all’Islam.
Concludiamo perciò che è sempre necessario che esista un Imam presso il quale rimangano custodite le autentiche leggi e le esatte conoscenze della religione islamica e della cui guida possano usufruire gli uomini, allorché abbiano raggiunto un adeguato grado di maturità spirituale.
Dio l’Altissimo descrive il venerato profeta dell’Islam dicendo:
“Vi è giunto un profeta, appartenente a voi stessi, che soffre e si dispiace per i vostri problemi, le vostre sofferenze; egli è affezionato a tutti voi ed è sollecito e gentile con i credenti”( Santo Corano, 9: 128.)
Non è possibile che l’amato Profeta che, secondo quanto dichiara espressamente il Corano, era, piú di qualsiasi altra persona, sollecito e gentile nei confronti dei suoi seguaci, non si sia pronunciato sul piú importante dei comandamenti divini per la società islamica, che anche il sano intelletto è in grado di comprendere.
Il sommo Profeta sapeva meglio di chiunque altro che la vasta e complessa religione islamica non era stata mandata solo per dieci o venti anni, egli sapeva perfettamente che essa è una religione universale e perpetua, che ha il compito di dirigere e governare l’intera umanità fino alla fine del mondo. È per questo che egli, prevedendo la situazione e le condizioni che si sarebbero venute a creare nei millenni successivi alla sua morte, diede le istruzioni necessarie in merito a esse.
Il sommo Profeta sapeva bene che l’Islam è un organismo sociale e che nessun organismo sociale può sopravvivere, nemmeno per un’ora, senza un responsabile, una guida. Era quindi perfettamente conscio del fatto che v’è sempre bisogno di una guida che custodisca le conoscenze e le leggi della religione, che diriga la società e guidi la gente verso la felicità di questo mondo e dell’Aldilà.
Come si può quindi pensare che egli abbia dimenticato questa fondamentale questione oppure si sia disinteressato di essa?! Appena si assentava da Medina per qualche giorno per affrontare una guerra oppure per svolgere il pellegrinaggio alla Mecca, metteva sempre qualcuno al suo posto e lo incaricava di amministrare gli affari della gente in sua assenza. Allo stesso modo, nominava un governatore per ciascuna delle città che venivano conquistate dai Musulmani e designava un comandante per ognuna delle armate e delle squadre che mandava a combattere in guerra. A volte designava addirittura uno o piú comandanti di riserva per evitare che i suoi uomini rimanessero senza guida nel caso in cui uno di essi fosse morto. Com’è possibile credere che il Profeta, prima di morire, non abbia presentato alla gente il suo successore?!
In sintesi si può affermare che chi consideri attentamente i sublimi propositi dell’Islam e il puro obiettivo del santo Profeta, acquisterà la certezza che la questione dell’Imamato è stata da quest’ultimo completamente risolta e chiarita.
Riguardo al problema dell’Imamato il sommo Profeta non si è limitato ad affermazioni evasive; al contrario, sin dai primi giorni della sua missione, egli lo ha chiaramente esposto {assieme alla questione dell’Unicità di Dio e a quella della Profezia} annunciando che dopo di lui sarà Alí a dirigere gli affari temporali e spirituali della società islamica.
Secondo una tradizione, narrata sia dalle fonti sunnite che da quelle Shi°ite, il Profeta, nel giorno in cui, per ordine divino, iniziò in modo pubblico a invitare la gente all’Islam, invitò i suoi parenti a casa sua e tenne con loro una riunione, nel corso della quale indicò manifestamente il suo successore e vicario in Alí, il Principe dei Credenti.
Negli ultimi giorni della sua vita, nella località di Ghadir Khum, dinanzi a centoventimila persone, il santo Profeta alzò la mano di Alí e disse: “Di chiunque sono io il padrone, la guida, è Alí suo padrone e guida”.
Oltre a ciò il nobile Inviato di Dio ha menzionato espressamente il numero, i nomi e le altre caratteristiche degli Imam che avrebbero dovuto succedergli nella guida della nazione islamica. In una celebre tradizione, narrata tanto dai Sunniti quanto dagli Shi°iti, il Profeta dice: “Gli Imam sono in numero di dodici e appartengono tutti ai Quraish”.
In un’altra famosa tradizione, il Profeta dice a Jàbir Al’ansàri che gli Imam sono in numero di dodici, gli rivela uno a uno i loro nomi e gli dice: “Tu sarai ancora vivo all’epoca del quinto Imam; trasmettigli dunque il mio saluto”.
Il nobile Profeta designò inoltre in modo particolare il suo immediato successore, vale a dire Alí, Principe dei Credenti, il quale, a sua volta, presentò l’Imam che sarebbe venuto dopo di lui e lo stesso fecero tutti gli altri Imam.
Da quanto è stato affermato in precedenza, si è compreso che l’Imam, al pari del profeta, deve essere immune dall’errore e dal peccato. Se cosí non fosse, il messaggio religioso arriverebbe incompleto e la guida divina perderebbe la sua efficacia.
L’Imam deve possedere inoltre virtú quali coraggio, audacia, purezza, generosità, e giustizia. Chi infatti è immune dal peccato osserva tutti i precetti divini e il possedimento di buone qualità morali è una delle conseguenze necessarie di una corretta pratica religiosa.
L’Imam deve inoltre possedere le virtú in misura superiore a qualsiasi altra persona; non avrebbe infatti senso e sarebbe invero contrario alla giustizia divina che una persona faccia da capo, da guida a chi è superiore a sé.
Dal momento poi che l’Imam e il custode della religione e la guida degli uomini, deve possedere quelle conoscenze necessarie a risolvere i problemi riguardanti la vita materiale e spirituale della gente e a condurre l’essere umano alla beatitudine. È infatti assurdo e, dal punto di vista dell’universale guida divina, insensato che chi guida gli altri non abbia le conoscenze necessarie per farlo.
Il sommo Profeta, sua figlia Fatima e i dodici Imam sono chiamati i “Quattordici Infallibili”. Di loro, cinque e cioè il profeta Muhammad, l’Imam Alí, la nobile Fatima e gli Imam Hasan e Husain, sono chiamati “Àli Kisà” {gente del mantello} oppure “Ashàbi Kisà” {compagni del mantello}.
Questi ultimi due soprannomi sono dovuti al fatto che un giorno il Profeta indossando un mantello, riuní sotto di esso Alí, Fatima, Hasan e Husain e iniziò a pregare. Dio rivelò allora il “Versetto della Purificazione”1.
Gli Imam, degni successori del nobile Profeta e guide temporali e spirituali della gente, sono in numero di dodici; i loro nomi sono rispettivamente:
Alí Ibn Abu Talib, detto Amír ul-mu’minin {Principe dei Credenti};
Hasan, detto Almujtabà;
Husain, detto Sayyid ush-Shuhadà {Signore dei Martiri};
Alí, detto As-Sajjad;
Muhammad, detto Al-Baqer;
Ja°far, detto As-Sadeq;
Músa, detto Al-Khadem;
Alí, detto Ar-Ridhà;
Muhammad, detto At-Taqi;
Alí, detto An-Naqi;
Hasan, detto Al-°Askari;
Hujjat Ibn al-Hasan, detto l’Imam del Tempo.
I membri dell’Ahl ul-Bayt, sono i perfetti esempi dell’istruzione e dell’educazione dispensate dal sommo Profeta. La loro condotta era in tutto e per tutto simile a quella del nobile Messaggero di Dio.
Invero, nel corso di duecentocinquanta anni (dalla morte del Profeta, avvenuta nell’anno undici dell’Egira, fino all’occultamento del dodicesimo Imam, avvenuta nell’anno 260), durante i quali gli Imam vissero tra la gente, essi si trovarono a fronteggiare circostanze assai disparate e tali cambiamenti diedero alle loro vite forme diverse. Tuttavia perseguirono tutti, per quanto poterono, gli obiettivi principali del sommo Profeta, vale a dire la preservazione dei princípi e dei precetti dell’Islam e l’istruzione e la formazione della gente.
Nel corso dei ventitré anni della sua missione, il sommo Profeta attraversò tre fasi: durante i primi tre anni egli invitava segretamente la gente ad abbracciare l’Islam; nei dieci anni successivi diffuse pubblicamente il messaggio e assieme ai suoi seguaci fu costretto a sopportare i duri tormenti e le crudeli torture dei miscredenti della Mecca. In tale periodo i Musulmani non potevano fare nulla che potesse servire a riformare e correggere la società in cui vivevano. Negli ultimi dieci anni (dopo l’Egira) l’Inviato di Dio si trovò a vivere in una società che mirava a restaurare la verità, nella quale il puro Islam aveva ogni giorno un notevole progresso, nella quale le porte del sapere e della perfezione, una dopo l’altra, venivano aperte dinanzi alla gente. Questi tre diversi ambienti ebbero le loro diverse esigenze e in essi l’esemplare condotta del Profeta (che non aveva altro obiettivo che restaurare la verità) si manifestò sotto differenti forme.
I vari ambienti nei quali vissero gli Imam, furono in complesso simili a quelli in cui visse il Profeta nel corso dei ventitré anni della sua sacra missione.
In certi periodi, al pari dei primi tre anni della missione del Profeta, non era assolutamente possibile esprimere pubblicamente la verità e l’Imam svolgeva la sua funzione con estrema cautela. Si possono citare ad esempio il periodo in cui visse il quarto Imam e gli ultimi anni dell’Imamato del sesto Imam. In altri periodi, al pari della seconda fase della missione del Profeta, l’Imam era impegnato a insegnare alla gente il sapere islamico, a diffondere i precetti religiosi ed era costretto a subire le torture e i tormenti dei potenti dell’epoca, che gli creavano ogni giorno un nuovo problema.
Il periodo della vita degli Imam che in certa misura assomigliava al terzo periodo della missione, era invece l’epoca del califfato di Alí, Principe dei Credenti e cosí pure un breve periodo della vita di Fatima, dell’Imam Hasan, dell’Imam Husain e dei compagni di quest’ultimo. In tali periodi la verità brillava di viva luce, rievocando lo splendore dell’ultimo decennio della sacra missione del sommo Profeta.
Riassumendo, si può affermare che gli Imam, all’infuori dei casi citati, non hanno avuto il potere di esercitare una consistente e aperta opposizione nei confronti degli usurpatori sovrani della loro epoca; erano perciò costretti a adottare, nel parlare e nell’agire, il metodo della Taqiyyah {dissimulazione} e a non fornire pretesti ai governi dell’epoca in cui vivevano. Malgrado ciò, i loro nemici sfruttavano ogni occasione per spegnere la loro luce e interrompere il loro influsso spirituale.
I diversi governi che nel mondo islamico presero uno dopo l’altro il posto di quello del sommo Profeta e assunsero tutti il nome di “governo islamico”, erano tutti in fondamentale contrasto con i membri dell’Ahl ul-Bayt. Tale contrasto traeva origine da un inestinguibile causa che ci proponiamo ora di analizzare.
Il sommo Profeta aveva fatto ai Musulmani delle raccomandazioni riguardo alla sua nobile figlia e agli Imam e li aveva informati delle loro virtú e delle loro doti (le piú importanti delle quali consistevano nella perfetta conoscenza del Corano e dei precetti divini); di conseguenza, era necessario che ciascuno degli elementi della comunità islamica li rispettasse e li riverisse. Quest’ultima però non diede a tali raccomandazioni, a tali parole del Profeta l’importanza che meritavano.
L’Inviato di Dio nel giorno in cui rese pubblica la propria missione invitò i suoi parenti all’Islam e presentò loro Alí in qualità di suo successore, cosa che fece in diverse altre occasioni anche negli ultimi giorni della sua vita (tra le quali ricordiamo quella famosa di Ghadir Khum). I Musulmani però, dopo la morte del santo Profeta, scelsero altri successori, privando cosí gli Imam del loro legittimo diritto alla successione. Avvenne cosí che i regimi al potere considerassero sempre i membri dell’Ahl ul-Bayt del Profeta come pericolosi rivali, temendoli e impiegando tutti i mezzi possibili per eliminarli.
Tuttavia, ciò che li opponeva fondamentalmente ai regimi che usurpavano il loro legittimo potere era un altro fattore (il problema della successione era un aspetto secondario di questo fondamentale fattore): i membri dell’Ahl ul-Bayt del Profeta consideravano il rispetto della condotta e del metodo di vita dell’Inviato di Dio un dovere per il popolo islamico e ritenevano i governi in carica responsabili della custodia e dell’esecuzione dei celesti precetti dell’Islam, mentre i governi islamici che vennero al potere dopo la morte del Profeta, come dimostra il loro comportamento, non ci tenevano molto a eseguire integralmente i precetti islamici e a seguire e adottare l’esemplare condotta del sommo Profeta.
Dio l’Altissimo in diversi versetti del Corano vieta al nobile Profeta e alla comunità islamica di modificare e cambiare i precetti divini, mettendoli persino in guardia dal dimostrare la minima propensione per tutto ciò che è contrario alle norme e alle leggi religiose. Il sommo Profeta, basandosi su queste stesse leggi, aveva adottato una condotta tale che nell’eseguire i comandamenti divini non si faceva influenzare dalle diverse persone, dai diversi luoghi e dai differenti periodi: li eseguiva precisamente come Dio li aveva rivelati.
L’osservanza dei precetti divini era un dovere per tutti, anche per lo stesso Profeta. La legislazione religiosa doveva essere eseguita, senza eccezioni, nei confronti di chiunque e valeva in ogni caso e in ogni luogo.
Era grazie a tale parità e giustizia che il Profeta era riuscito a eliminare tra la gente qualsiasi discriminazione. Egli stesso, che, per ordine divino, era il capo assoluto della comunità e doveva essere ubbidito incondizionatamente, non aveva il benché minimo privilegio rispetto al resto della gente, sia nella sua vita pubblica sia in quella privata.
Viveva e governava in modo molto semplice, senza pompa né fasto. Non si vantava mai della propria eccellenza e della propria posizione e non faceva mai mostra del suo potere e della sua grandezza. Si comportava insomma in modo tale che fosse impossibile distinguerlo dal resto della gente.
Durante il suo governo nessuna delle differenti categorie sociali cercava, servendosi della propria posizione, di prevalere sulle altre: le donne e gli uomini, i nobili e i vili, i ricchi e i poveri, i potenti e i deboli, i cittadini e i paesani, gli schiavi e i liberi, i neri e i bianchi erano tutti su uno stesso piano e nessuno era gravato in misura superiore ai propri doveri religiosi. La gente era libera dal doversi chinare dinanzi ai potenti della società ed era al sicuro dalla prepotenza degli oppressori.
Con un minimo di attenzione comprendiamo (soprattutto considerando le esperienze che abbiamo fatto da dopo la morte del Profeta fino ai nostri giorni) che il sommo Profeta, con la sua retta e perfetta condotta, non mirava che a eseguire in modo equanime tra la gente i celesti precetti islamici e a preservare le leggi islamiche dalle modificazioni e dalle falsificazioni.
I governi islamici che vennero dopo il Profeta, non conformarono però il loro metodo a quello di questo nobile messaggero di Dio, scelsero bensí un metodo completamente diverso dal suo.
Di conseguenza, accadde che:
• la società islamica, si divise nettamente in due classi, una potentissima e l’altra assai debole; i beni, la vita e l’onore di una parte della società divennero in tal modo preda delle passioni e della concupiscenza di un altro gruppo di persone.
• I governi in carica modificarono gradualmente le leggi islamiche e, prendendo a pretesto ora i bisogni della società islamica, ora le necessità di difesa della posizione dello stato e della politica del governo, si astenerono dall’agire in base ad esse. Questa inosservanza raggiunse proporzioni tali che le persone che avevano il dovere di dirigere e mandare avanti gli enti che componevano lo stato islamico non sentivano piú il benché minimo senso di responsabilità riguardo all’osservanza e all’esecuzione delle leggi islamiche. Si capisce qual è la fine che fanno di solito le leggi e le norme pubbliche quando non esiste un adeguato preposto alla loro esecuzione.
Da quanto è stato finora detto, abbiamo compreso che i regimi contemporanei dell’Ahl ul-Bayt del Profeta, adattandosi alle circostanze, modificarono i precetti dell’Islam e per questo motivo la loro condotta fu completamente diversa da quella del sommo Profeta, mentre i membri dell’Ahl ul-Bayt del Messaggero di Dio, conformemente al comandamento coranico, consideravano costantemente necessario il rispetto delle norme dettate dall’esemplare condotta del Profeta.
Fu a causa di questa fondamentale divergenza che i potenti regimi dell’epoca fecero tutto quello che poterono per danneggiare i nobili componenti dell’Ahl ul-Bayt del Profeta, usarono ogni mezzo possibile pur di riuscire a spegnere la loro luce.
Essi a loro volta, nonostante gli innumerevoli problemi che avevano costantemente di fronte e gli ostinati e nefasti nemici che li contrastavano, conformemente a quanto era stato loro ordinato da Dio, si impegnarono nell’opera di invito della gente verso le verità religiose, sforzandosi di divulgarle; non trascurarono poi di educare le persone probe.
Per convincersene basta consultare la storia e considerare il grande numero di Shi°iti esistenti all’epoca del califfato di Alí, Principe dei Credenti. Questa folta popolazione si era formata nei venticinque anni del ritiro di questo nobile Imam. Allo stesso modo, l’enorme quantità di Shi°iti esistenti all’epoca dell’Imam Al-Baqer era stata in precedenza formata e educata segretamente {nelle piú difficili condizioni} dall’Imam As-Sajjad. Le centinaia di migliaia di Shi°iti, amici dell’Ahl ul-Bayt e devoti seguaci dell’Imam Ar-Ridhà, trassero vantaggio dalle verità divulgate (persino dagli oscuri angoli delle prigioni) dal nobile Imam Músa figlio dell’Imam Ja°far As-Sadeq.
Insomma, fu per effetto di un’assidua opera d’insegnamento e educazione attuata dall’Ahl ul-Bayt del Profeta che la comunità Shi°ita (che il giorno della morte del sommo Messaggero di Dio era composta da un esiguo numero di persone) raggiunse, verso la fine dell’epoca degli Imam, dimensioni impressionanti.
Come abbiamo visto, i membri dell’Ahl ul-Bayt del Profeta hanno passato il periodo della loro vita in condizione d’oppressione e di prigionia. Essi hanno eseguito i compiti affidatigli da Dio facendo Taqiyyah e in condizioni assai difficili. Solamente quattro di loro, per un brevissimo periodo, hanno potuto vivere e operare liberamente, senza aver bisogno di fare Taqiyyah.
Affinché quanto abbiamo detto riguardo ai componenti dell’Ahl ul-Bayt del Profeta appaia piú chiaro, nei prossimi paragrafi daremo una breve illustrazione della loro biografia.
Il nobile Alí Ibni Abu Talib, Principe dei Credenti, è il primo perfetto prodotto dell’istruzione e della formazione spirituale impartita dal sommo Profeta.
Alí è stato allevato sin dall’infanzia dal nobile Messaggero e, come la sua ombra lo ha accompagnato ovunque sino alla morte; fu infatti lui stesso a deporlo nella tomba e a seppellirlo.
Alí è una personalità di fama mondiale. Si può affermare che nessun’altra grande personalità del mondo è stata al par suo oggetto di tante discussioni e dibattiti. I sapienti e gli scrittori Shi°iti e Sunniti o, piú in generale, Musulmani e non Musulmani, hanno scritto piú di mille libri sulla sua personalità.
Con tutte le ricerche che i suoi amici e cosí pure i suoi nemici hanno compiuto su di lui, nessuno mai è riuscito a trovare un solo punto debole inerente alla sua fede, al suo coraggio, alla sua purezza, alla sua sapienza, alla sua giustizia o alle altre sue virtú. Egli infatti non conosceva e non aveva che virtú e perfezione.
Come attesta la storia, Alí tra tutti gli uomini di governo che, dal giorno della morte del Profeta fino ai nostri giorni, hanno governato i Musulmani, è stato il solo ad aver adottato integralmente, durante tutto il periodo del suo governo, la condotta del sommo Profeta. Egli non deviò minImamente dal metodo del nobile Messaggero di Dio ed eseguí le leggi dell’Islam esattamente nel modo in cui venivano eseguite all’epoca del Profeta.
Nella vicenda inerente il consiglio di sei persone che era stato costituito per ordine del secondo Califfo e che aveva il compito di designare il suo successore, dopo un lungo dibattito i componenti del consiglio, che esitavano tra Alí e Uthman, offrirono il califfato ad Alí, a condizione però che egli adottasse la stessa condotta di governo del primo e del secondo Califfo. Egli rifiutò e disse: “Io non passo sopra il mio sapere”. Fecero quindi la stessa offerta, alla stessa condizione a Uthman, il quale accettò e divenne cosí califfo, anche se poi assunse una condotta diversa da quella dei primi due Califfi.
Le imprese eroiche, i sacrifici e gli atti di abnegazione compiuti da Alí sul sentiero della verità lo hanno reso unico, senza pari tra i compagni del Profeta. Non si può negare che se non ci fosse stato lui, i miscredenti nella notte dell’Egira e, dopo di essa, in ciascuna delle battaglie di Badr, Uhúd, Khandaq, Khaíbar e Hunàin, sarebbero facilmente riusciti a spegnere la luce della profezia e a rovesciare il vessillo della verità.
Alí condusse sempre una vita assai semplice. Viveva, all’epoca del Profeta, dopo la sua morte e persino durante il suo califfato, come i poveri e nelle piú umili condizioni. La sua abitazione, il suo cibo e i suoi indumenti erano gli stessi della piú povera delle persone.
Questo santo Imam non si concedeva mai alcun privilegio e diceva: “La guida di una società deve vivere in modo tale da consolare i bisognosi e i diseredati e non in modo tale da provocare in loro dispiacere e abbattimento”.
Il giorno del suo martirio, nonostante fosse il capo dell’intera nazione islamica, non possedeva che settecento dirham che aveva intenzione di spendere per assumere un servitore per casa sua.
Alí, per soddisfare le necessità della propria vita, lavorava. Egli aveva particolare interesse per l’agricoltura, l’arboricoltura e lo scavo di canali sotterranei. Tutti gli introiti derivanti da tali attività e tutto ciò che otteneva dagli abbondanti bottini di guerra lo distribuiva fra i poveri. I possedimenti che bonificava li destinava a opere pie oppure li vendeva e dava il ricavato ai poveri. Un anno, nel periodo del suo califfato, ordinò che, prima di distribuirle, gli si portassero le entrate riguardanti le sue donazioni: l’importo totale ammontava alla straordinaria cifra di ventiquattromila dinàr2.
In tutte le guerre alle quali partecipò il nobile Alí sconfisse sempre gli avversari e non batté mai in ritirata. Diceva: “Anche se tutti gli Arabi si levassero in guerra contro di me, io non avrei paura”.
Nonostante il suo sorprendente coraggio ed impareggiabile eroismo, Alí era incommensurabilmente gentile, affettuoso, generoso e magnanimo. Nelle guerre non uccideva e non faceva prigionieri i bambini, le donne e i deboli né inseguiva chi scappava. Nella battaglia di Siffín le truppe di Muàwiah occuparono la zona dalla quale era possibile prelevare acqua dall’Eufrate, impedendo cosí alle truppe di Alí di dissetarsi. Dopo un sanguinoso scontro, Alí riuscí però a conquistare tale zona e dopodiché ordinò ai suoi uomini di lasciare al nemico libero accesso a essa.
Durante il suo califfato riceveva tutti con semplicità, senza intermediari né portieri. Circolava da solo e a piedi e andava nei vicoli e nei mercati, ordinando alle persone di agire rettamente e impedendo loro di farsi reciproca ingiustizia.
Aiutava con cortesia e umiltà gli indigenti e le vedove e teneva a casa sua gli orfani indifesi, provvedendo di persona a soddisfare i loro bisogni e a educarli.
Per l’Imam Alí la scienza e il sapere avevano uno speciale valore ed egli dedicava una particolare cura alla loro divulgazione. Diceva: “Nessun male è pari all’ignoranza”.
Nella sanguinosa battaglia di Jamal, mentre era occupato a ordinare le schiere del proprio esercito, un Arabo venne avanti e gli chiese il significato della parola “tawhíd”; la gente, da ogni parte, inveí contro quest’uomo, rimproverandolo per questo suo inopportuno comportamento. Il nobile Imam Alí allontanò allora la gente dal nomade arabo e disse loro: “Noi combattiamo per restaurare proprio queste verità”. Dopodiché avvicinò il nomade e, mentre ordinava le schiere, con un’incantevole esposizione, gli espose la questione del tawhíd.
Un episodio simile, che rivela la disciplina religiosa e la stupefacente e divina forza di questo nobile Imam, accadde, secondo le tradizioni islamiche, nella battaglia di Siffin. Mentre la battaglia infuriava al pari di un mare in tempesta, in quel bagno di sangue, l’Imam Alí incontrando uno dei suoi uomini gli chiese dell’acqua per dissetarsi. Il soldato estrasse allora una ciotola di legno, la riempí e la diede all’Imam, il quale, notando una crepa nella ciotola, disse: “Nell’Islam è makrúh {sconsigliato} bere acqua in un tal recipiente”. Il soldato rispose: “In tali condizioni, sotto un diluvio di frecce e il fulgore di migliaia di spade, non v’è posto per simili dettagli”. La risposta che sentí da Alí può essere riassunta nelle seguenti parole: “Noi combattiamo per l’esecuzione di queste stesse norme religiose; le norme sono norme e vanno rispettate tutte, senza badare alla loro maggiore o minore portata”.
Alí è stato, dopo il Profeta, il primo che si è espresso sulle verità scientifiche attraverso il pensiero filosofico (ovvero per mezzo della libera argomentazione) coniando numerosi termini scientifici. Inoltre, onde preservare il nobile Corano da errori e falsificazioni, creò le regole della grammatica araba (la scienza che si occupa di tali regole viene chiamata in lingua araba Ilmunnahw).
Le acute osservazioni scientifiche, le conoscenze divine, le questioni etiche, sociali, politiche e persino matematiche contenute nei suoi discorsi, nelle sue lettere e nelle altre sue eloquenti dichiarazioni sono a dir poco stupefacenti.
Alí, come testimoniano i suoi discorsi, le sue lettere, le sue sentenze e le altre sue incantevoli dichiarazioni, è per i Musulmani la persona che meglio di chiunque altro ha conosciuto i sublimi scopi del Corano e ha compreso i princípi e i precetti dell’Islam.
Egli, con la sua straordinaria sapienza, ha invero confermato la tradizione del Profeta che dice: “Io sono la città della sapienza e Alí è la sua porta”.
Egli riuscí a combinare tale sapienza alla pratica.
Per finire, possiamo affermare che la straordinaria personalità di questo nobile Imam è tale che non può essere descritta completamente, le sue infinite virtú sono innumerabili e mai un personaggio ha attirato tanto l’attenzione dei sapienti e dei pensatori del mondo.
La nobile Fatima era l’unica, la cara e la diletta figlia del sommo Profeta. Con la sua sapienza, la sua fede, il suo timor di Dio e le nobili virtú che possedeva aveva riempito d’amore il cuore del proprio nobile padre.
La sua sapienza, il suo disinteresse per le cose del mondo e la sua devozione le valsero il soprannome di Sayyidat
Un-Nisà {la migliore di tutte le donne}, che gli venne dato dal suo nobile padre.
Il sommo Profeta diceva: “L’assenso di Fatima è il mio e il mio assenso è quello di Dio. L’ira di Fatima è la mia e la mia ira è quella di Dio”.
La nobile Fatima fu messa al mondo da una grande donna dell’Islam, Khadíjah la Suprema, nell’anno sesto della Missione. Nell’anno secondo dell’Egira sposò Alí, Principe dei Credenti. Tre mesi dopo la morte del suo nobile padre Fatima rese l’anima.
Nel corso della sua vita, la santa Fatima preferí sempre il consenso di Dio al proprio compiacimento personale. In casa si occupava dell’educazione dei propri figli e i lavori domestici li spartiva con la sua aiutante: un giorno li lasciava a quest’ultima e un giorno li eseguiva lei. Rispondeva ai quesiti delle donne musulmane e nel tempo libero si dedicava all’adorazione di Dio.
Fatima spendeva i suoi averi personali, specialmente gli abbondanti introiti della proprietà di Fadàk (costituita da alcuni villaggi siti nei pressi di Khaibar), sulla via di Dio e per sé non teneva che lo stretto necessario per vivere. Talvolta giungeva persino a donare ai poveri e agli indigenti la sua stessa razione di cibo, preferendo sopportare la fame.
Il dettagliato discorso che Fatima pronunciò nella Moschea del Profeta per i compagni del Messaggero di Dio e il gruppo di Musulmani presenti, le sue argomentazioni contro il primo Califfo a proposito del sequestro della proprietà di Fadak e le altre sue dichiarazioni costituiscono un chiaro segno del suo eminente grado spirituale, del suo coraggio, della sua forza e della sua perseveranza.
Dalla santa Fatima, diletta figlia del sommo Profeta e sposa di Alí, Principe dei Credenti, discendono undici dei dodici Imam e la discendenza del Profeta origina unicamente dalla sua prole.
Secondo quanto afferma espressamente in nobile Corano Fatima è infallibile.
Queste due nobili persone sono i figli di Alí e di Fatima. Le tradizioni dimostrano in modo certo che il sommo Profeta voleva un immenso bene a questi suoi due nipoti (che lui chiamava figli) e che non potesse sopportare di vederli soffrire ed essere tristi. Egli diceva: “Questi due miei figli sono Imam, indifferentemente dal fatto che si alzino o si siedano”.
Nella tradizione si è fatto uso di metafore: l’espressione “si alzino” significa “si facciano carico del califfato esteriore e combattano i nemici dell’Islam”. L’espressione “si siedano” significa invece “non si facciano carico del califfato esteriore e non combattano i nemici dell’Islam”.
Il Profeta disse altresí: “Hasan e Husain sono i signori dei giovani del Paradiso”.
L’Imam Hasan fu scelto, conformemente al testamento del suo nobile padre, come califfo e la gente gli promise fedeltà e ubbidienza. Egli governò per sei mesi gli stati islamici (a eccezione della Siria e dell’Egitto, ove Muàwiah aveva imposto il suo potere) e seguí la condotta di vita e di governo del suo nobile padre.
Nel corso di questo periodo, l’Imam Hasan cercò di preparare un’armata per sedare, una volta per tutte, la ribellione di Muàwiah. Costatò però che la gente era stata sedotta da quest’ultimo e che i capi del suo esercito avevano instaurato con lui un rapporto di corrispondenza ed erano solo in attesa di un suo ordine per ucciderlo o consegnarlo all’empio ribelle. Fu perciò costretto a concludere la pace col nemico.
L’Imam Hasan concluse la pace con Muawiah sotto precise condizioni; quest’ultimo però non tenne fede alle sue promesse. Dopo aver firmato il trattato di pace, andò infatti in Iraq e dichiarò alla gente: “Io non combattevo con voi per la religione, per indurvi a pregare o a digiunare, volevo bensí arrivare a governarvi e ora ho raggiunto il mio obiettivo”. Proseguí poi: “Non manterrò nessuna delle promesse che ho fatto a Hasan”.
L’Imam Hasan dopo questa pace imposta visse circa nove anni e mezzo, in condizioni difficili e opprimenti, sotto il dominio di Muawiah. La sua vita era continuamente in pericolo, persino all’interno di casa sua; fu infatti avvelenato, su istigazione di Muawiah, dalla propria moglie (Ju’dah) e mori cosí martire.
Dopo il martirio dell’Imam Hasan, conformemente all’ordine divino e al suo stesso testamento, diventò Imam suo fratello Husain.
La situazione era quella dell’epoca dell’Imam Hasan e Muawiah, con il potere che aveva acquistato, era riuscito a paralizzare completamente l’Imam. Dopo circa nove anni e mezzo Muawiah perí e il califfato, che si era ormai trasformato in un dispotismo monarchico, passò a suo figlio Yazíd.
Al contrario del suo ipocrita padre, Yazíd era un giovane pieno di arroganza, che se la spassava e si comportava in modo dissoluto e lussurioso davanti agli occhi di tutti.
Questo giovane arrogante, appena assunto il potere, ordinò al governatore di Medina di fare in modo che Husain gli promettesse alleanza e fedeltà e nel caso si fosse rifiutato, di decapitarlo e inviargli la sua testa.
Il governatore di Medina fece quindi quanto il perfido Yazíd gli aveva ordinato. L’Imam chiese allora del tempo e nottetempo lasciò Medina, si diresse alla Mecca e si rifugiò nel Santuario di Dio, asilo ufficiale dell’Islam. Tuttavia, dopo qualche mese, egli comprese che Yazíd non lo avrebbe mai lasciato in pace e lo avrebbe sicuramente ucciso se avesse continuato a rifiutarsi di sottomettersi a lui e ad astenersi dal promettergli alleanza e fedeltà.
D’altro canto, durante questo periodo erano giunte alcune migliaia di lettere Iraq, nelle quali gli si prometteva di aiutarlo e lo si invitava a costituire un movimento di lotta contro i tiranni ommaidi.
L’Imam Husain, dall’esame della situazione generale, dagli indizi e dalle prove esistenti, aveva compreso che il suo movimento di rinascita non avrebbe avuto alcun progresso apparente. Nonostante ciò si rifiutò di promettere fedeltà a Yazíd e scelse il martirio. Si diresse con i suoi, a titolo di rivolta, verso Kúfa e lungo la strada, nella zona di Karbalà (a circa sessanta chilometri da Kufa) incontrò la folta schiera di armati mandati da Yazíd a contrastarlo e a combatterlo.
Durante il tragitto l’Imam invitò alcune persone a sostenerlo; a coloro che lo avevano accompagnato annunciò invece la sua definitiva decisione di finire martire sul sentiero di Dio, lasciandoli liberi di scegliere se combattere al suo fianco oppure andarsene, abbandonarlo.
Fu cosí che il giorno in cui affrontò le truppe nemiche, dei suoi compagni, a parte un esiguo numero di devoti e abnegati uomini, non rimase nessuno. Di conseguenza, vennero facilmente e strettamente circondati dall’imponente esercito nemico e non ebbero persino piú modo di attingere acqua dal fiume. In tali condizioni, gli fu chiesto ancora una volta di decidere tra la sottomissione a Yazíd e la morte. L’Imam Husain rifiutò di sottomettersi e si preparò a essere ucciso.
Dalla mattina fino al pomeriggio, l’Imam e i suoi prodi compagni combatterono valorosamente contro le truppe di Yazíd. In questa battaglia caddero martiri l’Imam Husain, i suoi figli, i suoi fratelli, i suoi nipoti, i suoi cugini paterni e i suoi compagni, per un totale di circa settanta persone. Rimase vivo solo il diletto figlio dell’Imam Husain, che a causa di un fortissimo stato di indisposizione fisica non aveva potuto combattere a fianco del suo nobile padre.
L’esercito nemico, dopo il martirio dell’Imam, depredò i suoi beni e fece prigionieri i componenti della sua famiglia, trasportandoli, assieme alle teste decapitate dei martiri, da Karbalà a Kufa e poi in Siria.
Nel corso di questa prigionia l’Imam As-Sajjad, con un sermone pronunciato a Damasco, e Zaínab la Suprema, con dei discorsi pronunciati in pubbliche riunioni a Kufa (dinanzi a Ibniziàd, governatore di Kufa) e a Damasco (alla presenza di Yazíd), palesarono la verità, rivelando agli occhi del mondo la violenza e la tirannia della dinastia ommaide.
In ogni caso questo movimento husainiano contro la violenza, l’iniquità e la dissolutezza (che si concluse con il martirio dell’Imam Husain, dei suoi figli, dei suoi parenti, dei suoi compagni, con il saccheggio dei suoi beni e la cattura delle donne e dei bambini della sua famiglia) con le particolarità e i caratteri distintivi che possiede, è un avvenimento unico nel suo genere, senza eguali nella storia degli autentici movimenti di rinascita del mondo. Si può affermare che l’Islam deve la sua sopravvivenza a esso, poiché senza questa sacra rivolta gli Ommaidi avrebbero finito per annientare completamente la religione islamica.
Sebbene questi due onorati Imam siano, stando a quanto espressamente dichiarato dal sommo Profeta, Imam legittimi, sembra all’apparenza che la loro linea di condotta differisca. Alcuni sono persino arrivati ad affermare che la differenza di vedute di questi due fratelli era cosí forte che il maggiore, pur avendo un esercito di quarantamila guerrieri, acconsentí alla pace, mentre il minore, con quaranta dei suoi compagni (oltre ai suoi parenti), combatté il nemico, sacrificando in guerra persino il suo neonato bambino. Tuttavia un’attenta analisi dimostra che tutto ciò non corrisponde al vero.
Infatti, se è vero che nel corso di circa nove anni e mezzo vissuti sotto la dispotica monarchia di Muawiah, l’Imam Hasan non si oppose in maniera manifesta a questo perfido tiranno, è altrettanto vero che lo stesso Imam Husain, dopo il martirio del suo nobile fratello, visse anch’egli per un periodo di circa nove anni e mezzo sotto il dominio di Muawiah senza mai ribellarsi a questo perfido despota. Occorre quindi cercare la reale origine della differenza di comportamento di questi due nobili Imam nel cambiamento di linea di condotta di Yazíd rispetto a Muawiah e non nella divergenza di opinioni tra l’Imam Hasan e l’Imam Husain.
In effetti, il metodo di governo di Muawiah non si fondava sulla dissolutezza, egli non dileggiava i sacri precetti dell’Islam, peccando e opponendosi a essi apertamente, davanti agli occhi della gente. Al contrario, egli si presentava come uno dei compagni del Profeta, come uno di coloro che si preoccuparono di mettere per iscritto le parole che Dio rivelava al Profeta.
A causa di sua sorella (che era stata sposa del nobile Profeta e veniva perciò chiamata “Madre dei Credenti”) veniva chiamato “Zio dei Credenti”. Egli era molto amato dal secondo Califfo, del quale la gente aveva assoluta fiducia e massimo rispetto. Oltre a ciò Muawiah aveva assegnato delle responsabilità di governo alla maggior parte dei compagni del Profeta che godevano del rispetto e della stima della gente (Abú Hurairah, Amr Ibnias, Samarah, Busr, Mugairah Ibnishu’bah eccetera eccetera) e questa scelta gli aveva fatto guadagnare la fiducia della gente.
Venivano poi divulgate tra la gente delle tradizioni a proposito delle virtú dei compagni del Profeta, della loro inviolabilità religiosa e del fatto che qualsiasi cosa facciano sono scusati. Di conseguenza, Muawiah qualsiasi atto compiva, se era giustificabile veniva giustificato dalle stesse persone che facevano circolare tra la gente le sopraccitate tradizioni, se no si mettevano a tacere gli oppositori con sostanziosi doni; dove infine questi mezzi non si rivelavano efficaci, il perfido Muawiah, tramite i suoi complici e i suoi seguaci, eliminava coloro che gli si opponevano.
Fu cosí che decine di migliaia di innocenti Musulmani (Shi°iti e non) e persino alcuni dei compagni del Profeta furono uccisi dagli uomini di questo perfido despota.
In ogni cosa, Muawiah si comportava in modo tale da far credere agli altri che aveva ragione e che era dalla parte della verità. Agiva sempre con particolare pazienza e speciale longanimità; la sua caratteristica mitezza gli aveva fatto guadagnare l’affetto e l’ubbidienza della gente. Rispondeva agli insulti e alle aggressioni con gentilezza e clemenza. Era insomma in un cosí favorevole ambiente che metteva in atto i suoi piani e mandava avanti le sue politiche.
Muawiah faceva altresí mostra di rispettare l’Imam Hasan e l’Imam Husain, inviando loro ingenti doni; annunciava poi pubblicamente che chiunque avesse narrato una tradizione riguardo ai meriti dei componenti dell’Ahl ul-Bayt, non avrebbe piú avuto alcuna protezione né per sé né per i suoi beni né per il suo onore, e chiunque avesse narrato una tradizione a proposito dei meriti dei Compagni del Profeta avrebbe ricevuto un premio.
Muawiah ordinò agli oratori di insultare Alí nei loro discorsi pubblici. Per suo ordine i seguaci di Alí venivano uccisi ovunque venissero trovati. Tale massacro raggiunse proporzioni cosí esagerate che anche molti dei nemici dell’Imam Alí, con l’accusa di essere suoi amici, vennero uccisi.
Da quanto è stato detto, si comprende che un eventuale rivolta dell’Imam Hasan non sarebbe finita che a danno dell’Islam e non avrebbe avuto altro risultato che l’inutile spargimento del suo sangue e di quello dei suoi seguaci. Se l’Imam si fosse ribellato Muawiah, molto probabilmente, lo avrebbe fatto uccidere dai suoi stessi compagni e, per calmare l’opinione pubblica, si sarebbe fatto vedere in pubblico profondamente in lutto per la morte dell’Imam; col pretesto poi di vendicarlo sarebbe stato anche capace di massacrare gli Shi°iti. In modo simile si era comportato del resto con Uthman, il terzo Califfo3.
La linea politica di Yazíd era invece completamente diversa da quella di suo padre. Egli era un giovane borioso e dissoluto, non conosceva altra logica che la violenza e non aveva la benché minima considerazione dell’opinione pubblica.
Yazíd, durante il breve periodo del proprio governo, palesò tutti in una volta i danni che venivano arrecati di nascosto all’Islam.
Nel primo anno del suo governo massacrò i componenti dell’Ahl ul-Bayt del Profeta, nel secondo distrusse la città di Medina e per tre giorni diede agli uomini del suo esercito il permesso di uccidere la gente di questa città, saccheggiare i loro beni e abusare delle loro donne. Nel terzo anno demolí invece la Ka’bah.
Fu questo il motivo per il quale il movimento husainiano trovò credito presso l’opinione pubblica e, giorno dopo giorno, il suo effetto divenne sempre piú chiaro e profondo. Tale movimento si manifestò all’inizio sotto l’aspetto di una sanguinosa rivolta e finí per diventare un modello che spinse un enorme numero di Musulmani a diventare seguaci della verità e amici dell’Ahl ul-Bayt.
Muawiah prima di morire tra le raccomandazioni testamentarie che fece a Yazíd, gli raccomandò vivamente di lasciare stare Husain, di non importunarlo. La superbia e la boria di Yazíd non gli permisero però di discernere ciò che era a suo vantaggio da ciò che avrebbe finito per rovinarlo.
La linea di condotta adottata dall’Imam As-Sajjad nel corso del suo Imamato, pur restando nel complesso conforme alla linea di condotta generale degli altri Imam, assunse due diverse modalità.
Egli visse con il suo venerabile padre il tragico episodio di Karbalà e partecipò cosí al movimento husainiano; dopo il martirio del padre fu fatto prigioniero e tratto da Karbalà a Kúfa e poi in Siria. Durante tale prigionia non fece mai Taqiyyah e, impavidamente, dichiarò sempre la verità.
Quando le circostanze lo rendevano opportuno, attraverso i discorsi e le dichiarazioni che faceva, ricordava a tutti la rettitudine e l’onestà della Famiglia della Missione e metteva tutti al corrente dei torti che aveva subito il suo nobile padre e dei crimini commessi dalla dinastia ommaide, suscitando cosí fortemente i sentimenti della gente.
Quando la sua prigionia ebbe termine, l’Imam As-Sajjad tornò a Medina. L’atmosfera di guerra ed eroismo si trasformò in un’atmosfera di pace e tranquillità. Si ritirò in casa, chiuse la porta della sua dimora agli estranei e si dedicò all’adorazione di Dio. Educava segretamente i seguaci della verità; nel corso dei trentacinque anni del suo Imamato formò, direttamente e indirettamente, moltissime persone, mettendole nelle condizioni di comprendere profondamente il sapere islamico.
Le preghiere recitate, con il proprio accento celeste, da questo nobile Imam (con le quali supplicava il Signore e si confidava con Lui) contengono da sole una completa sintesi delle sublimi conoscenze islamiche. Queste preghiere sono state raccolte in un libro noto col nome di Assahífat us-Sajjàdiyyah.
Durante l’Imamato dell’Imam Muhammad Al-Baqer si erano create delle condizioni favorevoli per la divulgazione delle scienze islamiche.
Per effetto delle pressioni esercitate dagli Ommaidi, le tradizioni relative alla giurisprudenza dell’Ahl ul-Bayt erano andate perdute. Delle tradizioni del sommo Profeta, che erano state tramandate dai suoi compagni, non ne erano rimaste che cinquecento, mentre, per poter esporre i precetti dell’Islam ne occorrono migliaia. Insomma, se è vero che per effetto della tragedia di Karbalà e dei trentacinque anni di serio lavoro dell’Imam As-Sajjad si era creata una numerosa comunità Shi°ita, è altresí vero che tale comunità aveva scarse conoscenze rispetto al diritto islamico.
Il regno degli Ommaidi, a causa dei loro contrasti interni, del loro stravizio e dell’incapacità dei loro uomini di governo di dirigere la società, andava sempre piú indebolendosi e i segni della sua decadenza si facevano sempre piú evidenti. Il quinto Imam sfruttò questa occasione e si dedicò a diffondere le scienze dell’Ahl ul-Bayt e la giurisprudenza islamica, donando in tal modo alla società numerosi sapienti.
All’epoca del sesto Imam le condizioni per la divulgazione delle scienze islamiche erano ancora piú favorevoli. Infatti, da una parte la gente, per effetto del diffondersi delle tradizioni dell’Imam Al-Baqer e il lavoro di divulgazione svolto dai suoi allievi, si era resa conto di aver bisogno del sapere islamico e delle scienze dell’Ahl ul-Bayt, dall’altra invece il regno ommaide si era estinto e quello abbasside, che aveva occupato il suo posto, non si era ancora completamente consolidato.
Inoltre gli Abbassidi si mostravano gentili con l’Ahl ul-Bayt, soprattutto per il fatto che, per raggiungere i propri scopi e demolire le basi del governo ommaide, avevano preso come pretesto l’oppressione esercitata dalla dinastia ommaide sull’Ahl ul-Bayt e il sangue dei martiri di Karbalà.
L’Imam approfittò allora della situazione e si mise a divulgare i vari rami del sapere. I dotti e i sapienti venivano da ogni angolo e gli rivolgevano domande riguardanti la teologia islamica, l’etica, la storia dei Profeti e delle nazioni, la filosofia e i precetti morali, giovandosi delle sue esaurienti e illuminanti risposte.
Egli tenne discussioni con persone appartenenti ai diversi ceti e dispute con gli esponenti delle varie religioni e dottrine filosofiche. Istruí inoltre allievi nei diversi rami del sapere. Vennero poi composti centinaia di libri, chiamati “Usúl” {princípi}, contenenti le sue tradizioni e le sue esposizioni scientifiche.
L’Imam, sfruttando un breve periodo di pace presentatosi nell’ostile ambiente di quei giorni, educò migliaia di sapienti allievi, lasciando alla cultura islamica preziosi tesori di scienza e di sapienza. Piú di quattromila sapienti beneficiarono della sua ricca fonte di sapienza.
L’Imam As-Sadeq aveva ordinato ai suoi allievi di registrare per iscritto le sue lezioni e di proteggere e custodire i loro appunti e i loro libri. Diceva: “Verrà un giorno di disordine e tumulto e molti scritti andranno distrutti; avrete allora bisogno di questi libri e di questi scritti, che diverranno le uniche fonti scientifiche e religiose dei Musulmani”.
Perciò gli allievi dell’Imam portavano con sé penna e calamaio e registravano le sue parole.
Dedicò tutte le ore della sua vita, eccetto quelle riservate al riposo, a istruire la gente; svolgeva questa attività in ogni luogo, sia in modo manifesto che in modo segreto e metteva la sua sapienza a disposizione di tutti.
Insomma, le sue eminenti parole e i suoi preziosi insegnamenti ruppero le barriere dell’ignoranza e restaurarono l’originale religione del nobile profeta Muhammad (S). È per questo motivo che questo nobile Imam viene considerato il fondatore della dottrina Shi°ita, la quale prese in seguito il suo nome e venne chiamata “Dottrina Ja°farita”.
Dopo aver rovesciato il governo ommaide gli Abbassidi si impadronirono del califfato e iniziarono a perseguitare i discendenti della nobile Fatima, cercando con tutte le loro forze di sterminare la Famiglia della Missione: ad alcuni fu tagliata la testa, altri furono sepolti vivi e altri ancora vennero messi nelle fondamenta o nei muri degli edifici. La casa del sesto Imam venne data alle fiamme e questi venne diverse volte portato in Iraq.
Fu cosí che negli ultimi anni di vita del sesto Imam la Taqiyyah divenne sempre piú intensa; egli, siccome era sotto stretta sorveglianza, non riceveva che l’élite Shi°ita.
Infine, per ordine del secondo califfo abbasside Almansúr, fu avvelenato e morí martire. Perciò durante l’Imamato del settimo Imam, il nobile Músa Al-Khadem, la pressione dei nemici dell’Ahl ul-Bayt era forte e continuava giorno dopo giorno ad aumentare.
Nonostante la forte Taqiyyah che era costretto a praticare, il settimo Imam riuscí a occuparsi della divulgazione del sapere, mettendo a disposizione degli Shi°iti un gran numero di tradizioni. Si può affermare che questo nobile Imam, dopo il quinto e il sesto Imam, possiede, tra tutti gli Imam, il maggior numero di tradizioni riguardanti il diritto islamico.
A causa della forte Taqiyyah che era costretto a praticare, nella maggior parte delle tradizioni a lui risalenti non compare il suo nome, compaiono bensí i suoi soprannomi, trai quali ricordiamo “Al’àlim” {il sapiente} e “Al’abdussàlih” { il probo servo di Dio}.
L’Imam Musa Al-Khadem fu contemporaneo di quattro califfi abbassidi, Almansúr, Alhàdi, Almahdí e Alhàrun, che gli resero tutti la vita difficile. Alla fine, per ordine di Alhàrun, venne imprigionato e dopo anni di prigionia, nei quali veniva continuamente trasferito da una prigione all’altra, venne avvelenato e morí martire.
Qualsiasi attento osservatore dell’epoca poteva, esaminando la situazione, constatare che piú i Califfi e i nemici dell’Ahl ul-Bayt accentuavano le loro pressioni e le loro torture nei confronti degli Imam e dei Shi°iti, piú questi aumentavano di numero e la loro fede si rinforzava. Inoltre questi soprusi, queste violenze non facevano altro che dimostrare loro la corruzione e la malvagità di coloro che detenevano il potere. Ne erano convinti anche i califfi dell’epoca degli Imam; ciò li tormentava e li faceva disperare.
Alma’mún, il settimo califfo abbasside, contemporaneo dell’Imam Ar-Ridhà, dopo aver ucciso suo fratello Amín, s'impadroní del califfato. Egli pensò di sbarazzarsi una volta per tutte degli Shi°iti ed eliminare in tal modo le preoccupazioni e i continui tormenti interiori che aveva a causa loro. La politica che scelse per realizzare questo suo proposito, non era assolutamente incentrata sulla violenza e sulla repressione, consisteva bensí nel nominare l’Imam come suo successore, al fine di screditarlo dinanzi agli Shi°iti e far perdere loro la fede nella grandezza e nella rettitudine dell’Imam. In tal caso l’Imamato, fondamento della dottrina Shi°ita, avrebbe subito un letale colpo, annientandosi spontaneamente.
L’esecuzione di questo infernale strategia presentava inoltre il vantaggio di porre fine alle insurrezioni organizzate dai discendenti della nobile Fatima al fine di porre fine alla dittatura abbasside; vedendosi infatti eredi al potere avrebbero naturalmente rinunciato alle loro sanguinose insurrezioni. Ovviamente, una volta attuato questo piano, uccidere l’Imam non avrebbe piú creato alcun problema al califfo Alma’mún.
Il perfido Alma’mún prima invitò l’Imam ad accettare il califfato e dopo la successione; dopo aver insistito a lungo, il perfido Califfo minacciò l’Imam, il quale si vide cosí costretto ad accettare. Pose però una condizione: volle essere esentato dal dover occuparsi delle nomine e delle destituzioni e dal dover ingerire nelle questioni importanti di governo.
In tali condizioni l’Imam si occupò della guida spirituale della gente ed ebbe, per quanto poté, dei dialoghi con gli esponenti delle altre religioni e delle altre dottrine. Egli pronunciò preziosi discorsi in materia religiosa (Alma’múm amava immensamente discutere delle questioni religiose); le sue asserzioni relative ai princípi del sapere islamico sono in gran numero, tanto che arrivano a eguagliare quelle dell’Imam Alí e a superare quelle degli altri Imam.
Questo santo Imam diede un grande contributo alla dottrina Shi°ita: molte delle tradizioni che erano state conservate dagli Shi°iti e che appartenevano ai suoi nobili padri, gli vennero esposte dai suoi seguaci, che servendosi del suo prezioso giudizio riuscirono a distinguere quelle autentiche da quelle inventate, da quelle false, che impure mani avevano illegittImamente inserito tra le autentiche tradizioni dell’Ahl ul-Bayt.
Nel corso del suo viaggio tra Medina e Marw (che aveva intrapreso per assumere la carica di successore del Califfo, impostagli dallo stesso califfo Alma’múm) lungo la strada e in particolare in Iran, l’Imam suscitò tra la gente un’incredibile animazione. La gente, da ogni parte, affluiva a frotte per vederlo; giorno e notte, al pari di farfalle intorno ad una candela, lo circondavano devotamente e da lui apprendevano i principi e i precetti della religione islamica.
Alma’múm, dall’eccezionale e sorprendente attenzione della gente verso l’Imam, comprese che aveva adottato una politica sbagliata. Per riparare all’errore che aveva commesso, martirizzò il santo Imam avvelenandolo, e riprese di nuovo la tradizionale politica repressiva dei califfi precedenti nei confronti dell’Ahl ul-Bayt e degli Shi°iti.
Questi tre grandi Imam trascorsero la loro vita in ambienti simili tra di loro. Dopo il martirio dell’Imam Ar-Ridhà, Alma’múm convocò a Baghdad l’unico figlio di questo santo Imam e cioè il nobile Imam Muhammad At-Taqi. Il perfido Califfo {per raggiungere i suoi scopi} si comportava in modo gentile e affettuoso con l’Imam; gli diede in sposa la propria figlia e, in assoluto rispetto, lo tenne a vivere con sé.
Questo comportamento, all’apparenza amichevole e affettuoso, era in realtà una tattica usata da Alma’mún per tenere l’Imam sotto stretta sorveglianza. Analogo fu il soggiorno dei due nobili Imam Alí An-Naqi e Hasan Al-°Askari a Samirrà (che all’epoca del loro Imamato era la capitale del califfato): questi due nobili Imam erano stati trasferiti in questa città solamente per essere tenuti sotto strettissima sorveglianza.
La durata complessiva dell’Imamato di questi tre santi Imam fu di cinquantasette anni. In tale periodo il numero degli Shi°iti, che allora risiedevano in Iran, in Iraq e in Siria, era considerevole, ammontando a centinaia di migliaia di persone, tra le quali esistevano migliaia di trasmettitori delle tradizioni del sommo Profeta e degli Imam. Ciononostante, le tradizioni risalenti a questi tre nobili Imam sono pochissime.
Essi ebbero inoltre una vita relativamente breve: il nono Imam morí martire a venticinque anni, il decimo a quaranta, l’undicesimo a ventisette.
Tutto ciò dimostra chiaramente quanto stretta fosse la sorveglianza alla quale questi santi Imam furono sottoposti dai loro nemici. Essi non ebbero perciò modo di eseguire liberamente la loro sacra missione. Ciò non ha però impedito che ci giungessero preziose {anche se, come già detto in precedenza, assai poche} tradizioni risalenti a questi tre illustri Imam e riguardanti i princípi e i precetti della religione islamica.
Il dispotico governo del Califfo, all’epoca dell’Imam Al-°Askari, aveva deciso di eliminare con qualsiasi mezzo possibile il successore di questo nobile Imam e porre in tal modo fine all’Imamato e, di conseguenza, alla dottrina Shi°ita. L’undicesimo Imam venne perciò messo sotto sorveglianza anche sotto questo aspetto. Fu questo il motivo per il quale si mantenne il silenzio sulla nascita del dodicesimo Imam.
Sino all’età di sei anni venne tenuto nascosto e solamente un limitato numero di Shi°iti poteva vederlo. Dopo il martirio del suo nobile padre entro, per ordine di Dio, in uno stato di occultamento, chiamato Occultamento Minore, che duro alcuni anni. Rispondeva alle domande degli Shi°iti e risolveva i loro problemi tramite quattro vicari, personalmente nominati da lui, che uno dopo l’altro ebbero l’onore di sostituirlo.
A questo primo occultamento ne seguí un altro, chiamato Occultamento Maggiore; esso dura ormai da circa quattordici secoli. Egli permarrà in questo stato fino a quando, per ordine divino, non riapparirà per colmare la terra di giustizia ed equità, dopo che si sarà riempita di violenza e oppressione.
Sono state tramandate numerose tradizioni (risalenti al sommo Profeta e ai nobili Imam) a proposito di questo santo Imam, del suo occultamento e della sua futura manifestazione. Simili tradizioni sono state tramandate sia dai Sunniti che dagli Shi°iti.
Un gran numero di eminenti Shi°iti, quando ancora l’undicesimo Imam era in vita, lo incontrarono e, dal suo nobile padre, appresero che sarebbe diventato Imam dopo di lui. Del resto l’umanità non può assolutamente rimanere senza la religione di Dio e un Imam che la difenda e la custodisca (lo abbiamo visto sia nel capitolo dedicato alla profezia che all’inizio del presente capitolo).
La conclusione che può essere tratta dalla biografia dei Profeti e degli Imam è che essi erano uomini realisti e seguaci della verità, invitavano gli uomini ad essere realisti e a farsi seguaci della verità e per difendere la verità fecero ogni sorta di sacrificio.
In altre parole, essi si sforzarono di formare nel migliore dei modi l’uomo e la società umana. Volevano liberare la gente dalle tenebre dell’ignoranza e dalle catene della superstizione e donare loro una serie di corrette convinzioni e giusti princípi. Volevano impedire all’uomo di lordare la sua pura natura umana con un indole animale, di comportarsi come le fiere o gli erbivori (che non sanno fare altro che divorarsi l’un l’altro o riempirsi il ventre) e indurlo ad acquisire un indole umana e a sfruttare la propria umanità per raggiungere la beatitudine.
I Profeti e gli Imam erano uomini che non pensavano assolutamente al proprio benessere e alla propria comodità personale, bensí si sacrificavano totalmente per la beatitudine e per il bene dell’umanità.
Essi vedevano la propria beatitudine (che in realtà è l’unica cosa alla quale l’essere umano aspira) nell’essere benevoli verso tutti; volevano che anche gli altri la pensassero in questo modo e che ognuno desiderasse per il prossimo tutto ciò che desidera per sé stesso, rifiutando per gli altri tutto ciò che rifiuta per sé.
È grazie a questo realismo e a questa rettitudine che questi nobili uomini hanno compreso l’importanza di questo dovere generale dell’essere umano (l’essere benevoli verso gli altri) e degli altri doveri particolari che derivano da esso, ed hanno acquisito la virtú dell’abnegazione, hanno sacrificato la propria vita e i propri beni per restaurare la verità e sono riusciti a purificarsi da ogni qualità connessa alla malevolenza. Essi non erano attaccati alla propria vita, ai propri beni, detestavano l’egoismo e la viltà e non mentivano mai; durante tutta la loro vita non calunniarono nessuno né offesero l’onore altrui.
Esporremo queste qualità e i loro effetti nella parte dedicata all’etica
La Resurrezione è uno dei tre princípi fondamentali della sacra religione islamica.
Ogni essere umano (senza eccezione) comprende in modo insito la differenza tra compiere il bene e compiere il male e considera la pratica di ciò che è bene (anche se di solito non agisce conformemente a questa sua convinzione) come una cosa positiva e necessaria, e la pratica di ciò che è male (anche se di solito lo pratica) come una cosa negativa, da evitare.
Non v’è dubbio che il bene e la sua pratica sono cose positive per effetto delle positive conseguenze che esse hanno e della ricompensa che meritano; analogamente il male e la sua pratica sono cose negative per effetto delle dannose conseguenze che queste hanno e del castigo che meritano.
Non v’è altresí dubbio che in questo mondo non esiste un giorno nel quale i retti vengano ricompensati per le loro buone azioni e i peccatori per i loro peccati. Ognuno di noi può infatti concretamente constatare che un grande numero di probe persone passano la propria vita in assoluta tristezza e sventura, mentre, al contrario, molti degli scellerati che hanno lordato l’intera loro esistenza con il crimine e il delitto, nonostante il loro indegno modo di agire, la loro cattiva condotta, trascorrono i giorni della loro vita nel piacere e nella soddisfazione.
Concludiamo perciò che se l’uomo, nel suo futuro e in un mondo diverso da questo, non avesse avuto un giorno nel quale le sue buone azioni venissero remunerate e le sue trasgressioni punite, non avrebbe mai giudicato in modo insito che la pratica del bene è positiva e necessaria e la pratica del male è una cosa negativa e da evitare.
Si presti attenzione che è errato pensare che la ricompensa dei probi consista in una parte dei frutti dati dalla felicità conseguente dalla disciplina e dalla serenità createsi nella società per effetto delle loro buone azioni. Allo stesso modo, è errato credere che il castigo del peccatore consista nel dover subire le spiacevoli conseguenze dell’instabilità creatasi nella società in cui vive a causa delle sue trasgressioni e della sua infame condotta.
Quest’ultima ipotesi potrebbe infatti essere in certa misura vera per delinquenti deboli e incapaci, ma non nel caso di quelli che raggiungono i vertici del potere. L’instabilità della società non ha infatti alcun effetto su di loro; si può anzi affermare che più disordine, corruzione e miseria esiste nella società, piú il loro benessere e il loro successo aumenta. Se per i trasgressori non fosse quindi esistita altra punizione che quella poc’anzi citata, questi delinquenti non avrebbero allora insitamente considerato la rettitudine come cosa positiva e la scelleratezza come cosa cattiva {mentre possiamo facilmente constatare che queste due convinzioni sono insite anche in questo tipo di persone}.
È altresí errato pensare che la punizione di tali individui consista nel fatto che essi perderanno per sempre la reputazione e verranno da tutti disprezzati. Infatti, tali individui perderanno la loro reputazione presso le generazioni future e verranno condannati da queste; ciò avverrà però solo quando essi saranno ormai morti e sepolti. È quindi evidente che un tale fatto non può avere il benché minimo effetto sulla loro vita piena di piaceri e gioie.
Quindi se non fosse esistita la risurrezione non vi sarebbe stato alcun motivo per cui l’uomo considerasse positivo il retto agire, cercando di diventare probo, e negativa la trasgressione e la scelleratezza, cercando di evitare di cadere nel male e nella corruzione. Inoltre, se non fosse esistita la Resurrezione, tali considerazioni sulla rettitudine e la scelleratezza sarebbero state sicuramente considerate delle superstizioni.
È insomma da queste pure e salde convinzioni che il Signore ha posto nella nostra natura, che dobbiamo capire che Dio risusciterà tutti gli uomini, ricompensando (con l’eterna beatitudine) i probi e castigando i peccatori. Tutto ciò avverrà nel cosiddetto “Giorno del Giudizio”.
Tutte le religioni che invitano l’uomo a adorare Dio l’Altissimo, che gli ordinano di agire rettamente e gli vietano di compiere il male, accettano la Resurrezione. Esse infatti non dubitano assolutamente sul fatto che la rettitudine acquista valore solo quando è ricompensata e che siccome tale ricompensa non si riceve in questo mondo, dovrà necessariamente essere presa in un altro mondo e con un’altra vita.
I reperti di tombe assai antiche rivelano che l’uomo dell’antichità credeva anch’egli in un’altra vita dopo la morte. Secondo tale fede egli eseguiva particolari riti per far sí che i suoi simili defunti trovassero requie nell’Aldilà.
In centinaia di versetti il nobile Corano rammenta alla gente la Resurrezione e respinge ogni sorta di dubbio riguardo ad essa.
Per far conoscere meglio l’argomento e convincere chi trova assurda e inverosimile la vita ultraterrena, il Corano in molti dei suoi versetti ricorda alla gente la creazione primordiale e l’assoluto potere divino:
“Non vede forse l’uomo, che si dimostra ora palesemente ostile {nei Nostri confronti}, che lo abbiamo creato da una goccia di liquido? E poi, dimentico della sua creazione, ci porta un esempio dicendo: ‘Chi rivificherà le ossa {quando dopo la nostra morte si saranno putrefatte e} disperse?’. Di’: ‘Le rivificherà Chi le ha create la prima volta. Egli invero conosce ogni cosa creata’” (Santo Corano, 36: 77-79)
In altri versetti rammenta agli uomini la potenza di Dio, attirando la loro attenzione sulla rigenerazione della terra in primavera dopo la morte dell’inverno:
“E fra i Suoi segni vi è che tu vedi la terra come morta e non appena facciamo scendere su di essa della pioggia essa entra in movimento e verdeggia. In verità Chi vivifica questa terra risusciterà anche i morti, perché Egli può tutto” (Santo Corano, 41: 39)
Talvolta invece si serve dell’argomentazione logica per risvegliare la coscienza umana e spingerla in tal modo ad ammettere questa realtà:
“Non abbiamo creato il cielo, la terra e quel che è fra essi invano: coloro che non credono nella Resurrezione pensano che la creazione sia una cosa vana1. Guai dunque ai miscredenti (che saranno bruciati) dal fuoco dell’Inferno! Tratteremo forse alla pari coloro che credono e operano rettamente e coloro che spargono la corruzione sulla terra?!”(Santo Corano, 37: 27-28)
In effetti, in questo mondo i probi non ricevono la {completa} ricompensa del loro retto agire e nemmeno i peccatori il {completo} castigo delle proprie trasgressioni. Se non esistesse un altro mondo nel quale venga dato ai primi la loro ricompensa e ai secondi il loro castigo, ne conseguirebbe che il probo e l’empio sono uguali presso Dio, il che, considerata la Sua assoluta giustizia, è assurdo.
Secondo l’Islam l’essere umano è una creatura formata da un corpo e uno spirito.
Il corpo umano è uno dei composti della materia e, in quanto tale, soggiace a determinate leggi. È dotato di volume e peso, la sua esistenza si svolge in un dato tempo e in un determinato luogo, subisce l’effetto del freddo, del caldo e degli altri agenti naturali, invecchia, si logora e, alla fine, si decompone e scompare.
Al contrario, lo spirito umano non è materiale e non possiede perciò nessuna delle sopraccitate proprietà, specifiche della materia. La cognizione, la percezione, il pensiero, la volontà, l’amore, l’odio, la gioia, la tristezza, la paura eccetera eccetera, sono le proprietà specifiche dello spirito, le quali, al pari di quest’ultimo, non possiedono le specifiche proprietà della materia.
Nell’adempimento delle loro innumerevoli funzioni, il cuore, il cervello e gli altri organi del corpo obbediscono agli ordini dello spirito e delle sue facoltà. Nessuna delle parti del corpo può essere infatti considerato come “centro di comando”.
Dice Dio l’Altissimo:
“Invero Noi, in principio, creammo l’uomo da una sostanza presa dal fango quindi ne facemmo un seme {in una goccia di liquido, situato} in un saldo ricettacolo; facemmo quindi del seme un grumo di sangue, del grumo una mudgah2 e di questa delle ossa; rivestimmo quindi le ossa di carne e gli demmo una nuova e straordinaria creazione” (Santo Corano, 23: 12-14).
Secondo la religione islamica la morte degli uomini non è il loro completo annientamento. Essa infatti ci insegna che con la morte, lo spirito imperituro recide i suoi legami con il corpo, il quale si decompone e scompare, a differenza dello spirito che prosegue la sua esistenza senza il corpo.
Dice Dio l’Altissimo:
“Coloro che negano la Resurrezione dicono: ‘Come faremo a essere ricreati di nuovo dopo che saremo morti e i nostri corpi si saranno decomposti e dispersi nella terra?’...O Profeta, rispondi loro: ‘L’Angelo della Morte, a voi delegato, vi dividerà dai vostri corpi {perciò non vi annienterete}” (Santo Corano, 32: 10 -11).
Il sommo Profeta dice: “Voi morendo non vi annientate, passate bensí da una dimora a un’altra”.
Secondo l’Islam, dopo la morte, l’uomo continua la sua vita secondo una modalità specifica: colui che ha agito rettamente gode della beatitudine e dei doni di Dio, colui che invece ha operato il male diviene preda di tormenti. Quando poi ci sarà il Giudizio Universale tutti dovranno, dinanzi a Dio, rispondere delle azioni che hanno compiuto durante la loro vita terrena. Il mondo nel quale vive l’uomo dalla sua morte fino al Giorno del Giudizio è chiamato “Barzakh”.
Dice Dio l’Altissimo:
“Dietro gli uomini, dopo la loro morte, vi sarà un barzakh {stadio intermedio, che durerà} fino al giorno in cui saranno risuscitati” ( Santo Corano, 32: 10-11).
In un altro versetto dice poi:
“E non considerare morti coloro che sono caduti sulla via di Dio, no, essi sono vivi e vengono, presso il loro Signore, sostentati” ( Santo Corano, 3: 169).